“La sera di quel
giorno, il primo della settimana…”: il vangelo ci fa tornare agli avvenimenti
di quel «primo giorno della settimana»,
il giorno della corsa dei due discepoli al sepolcro vuoto e dell'apparizione
del Risorto a Maria di Màgdala, ma, nello stesso tempo, ci fa entrare anche nell’”ottavo
giorno” (“Otto giorni dopo“), quasi a ricordarci la consuetudine delle prime
comunità cristiane di riunirsi in assemblea ogni primo giorno
della settimana, giorno in cui si faceva memoria della Pasqua
del Signore e che in seguito divenne il 'suo' giorno, il 'giorno del Signore' (dies
dominicus, = 'domenica').
Il vangelo ci immette dunque in
questo ritmo liturgico scandito dalla memoria pasquale, che si rinnova di
domenica in domenica in un succedersi ininterrotto, fino al compimento definitivo
della storia quando il Signore verrà nella sua gloria.
E non è forse un caso che Giovanni
presenti l'apparizione del Risorto ai discepoli come
una 'venuta' (per ben tre volte infatti si dice che «venne Gesù»). Gesù viene per stare di nuovo in mezzo ai suoi, come
aveva promesso, viene là dove una comunità si raduna nel suo nome, viene in
ogni celebrazione eucaristica come pegno e anticipo di quella venuta ultima
promessa alla fine dei tempi.
E la sua presenza è così forte da
vincere ogni paura, ogni chiusura (le 'porte
sprangate'!), ogni smarrimento, ogni tristezza. I discepoli, dopo la morte
del loro Maestro, se ne stanno ancora rintanati, impauriti e increduli. Ed ecco
che Gesù viene, si fa loro vicino, si ferma «in mezzo», non a margine bensì proprio al cuore della loro paura,
del loro scoraggiamento, della loro incapacità a rialzarsi dopo la delusione
provata per il 'fallimento' della croce. Sta in mezzo e la prima parola che
pronuncia è: «Pace a voi!», e il
primo gesto che fa è quello di mostrare le mani e il fianco. Parola e gesto profondamente
uniti: la pace offerta nasce infatti dalla sua vita interamente donata; i segni
della sua passione - le mani trapassate dai chiodi e il fianco trafitto - sono
lì, davanti a tutti, a testimoniare il suo amore giunto «sino alla fine». Questa è la pace che il mondo non può dare perché
è una pace che viene da Dio ed è una pace vera perché capace di distruggere
l'odio e la menzogna fino alle loro radici. Quando in ogni eucaristia ci
scambiamo il 'segno di pace' dovremmo ricordarci di chi è e da dove viene
questa pace.
«E i
discepoli gioirono al vedere il Signore». Dalla paura e dalla tristezza i discepoli
passano alla gioia, una gioia intensa e profonda. La presenza del
Risorto crea una comunità in cui regna la pace invece della paura, la fiducia
invece della diffidenza, la libertà invece della schiavitù. E una comunità
finalmente aperta, in missione, non più chiusa e ripiegata su se stessa.
Questo è il motivo di lode e di
benedizione espresso da Pietro nella 2 lettura: “Sia benedetto Dio che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati
mediante la risurrezione di Gesù Cristo…per una speranza viva…”.
Da questo incontro con il Risorto
nasce e si edifica la comunità dei credenti che, nonostante le difficoltà e
paure (di cui ci parla il vangelo) ci viene presentata, nel libro degli Atti (1
lettura) capace di “perseverare” e di
crescere fondata su l’ascolto della Parola, la frazione del pane, la preghiera
e la comunione fraterna; quattro pilastri che devono stare a fondamenta di ogni
comunità cristiana.
Anche noi oggi dunque siamo chiamati
a fare della domenica il giorno del Signore, perseverando nel partecipare a
questo giorno per fare esperienza della Sua presenza che salva e ci dona misericordia
e pace. Se il Risorto è colui che «sta in
mezzo» alla sua comunità, alla sua Chiesa, quest'ultima diventa allora il
luogo privilegiato (non unico) per incontrarlo: finché Tommaso sta fuori dal
cenacolo non ha la possibilità di incontrare il Risorto e
continua a dubitare; nel momento che accetta di entrare nello spazio della
comunità radunata, ecco che il Risorto viene e si fa a lui presente.
«Tommaso, uno dei Dodici, non
era con loro». Tommaso ci è di esempio nel suo cercare il
Signore: lui non si accontenta facilmente dell'esperienza riportata da altri ma
vuole 'toccare con mano' come stanno veramente le cose. Ci ricorda che il
credere non deve essere semplicemente l’accettare passivamente quello che altri
ci dicono, ma esperienza e incontro personale con il Signore. Certo questo deve
portarci allora a superare il nostro essere ‘cristiani passivi’ (tali solo
perché altri ci hanno fatto diventare cristiani), per aprirci alla beatitudine
di una fede che va oltre il toccare e ci apre alla capacità di ascoltare,
accogliere e amare Colui che arriviamo a riconoscere “Mio Signore e mio Dio”, centro e punto unico di riferimento per la
nostra vita. A noi infatti è riservata la beatitudine che chiude il racconto,
la beatitudine di coloro che credono pur “non
avendo visto”. «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora,
senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia» ci ricorda Pietro nella sua lettera.
Amore e fede tuttavia che nascono, crescono e maturano proprio attraverso
l’incontro settimanale nella comunità. Nessuno ci può togliere la gioia di
incontrare il Signore «otto giorni dopo»,
cioè nel tempo della memoria della sua Pasqua, nel giorno in cui la Chiesa si
riunisce per celebrare l'eucaristia domenicale; e nello spazio di una comunità
raccolta nel suo nome, che vive della sua presenza, nei segni del pane e del
vino, nella parola proclamata, nell'essere suo corpo vivente.
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