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venerdì 21 aprile 2017

Seconda domenica di Pasqua



 “La sera di quel giorno, il primo della settimana…”: il vangelo ci fa tornare agli avvenimenti di quel «primo giorno della settimana», il giorno della corsa dei due discepoli al sepolcro vuoto e dell'apparizione del Risorto a Maria di Màgdala, ma, nello stesso tempo, ci fa entrare anche nell’”ottavo gior­no” (“Otto giorni dopo“), quasi a ricordarci la consuetudine delle prime comunità cristiane di riunirsi in assemblea ogni primo gior­no della settimana, giorno in cui si faceva memo­ria della Pasqua del Signore e che in seguito divenne il 'suo' giorno, il 'giorno del Signore' (dies dominicus, = 'domenica').
Il vangelo ci immette dunque in questo ritmo liturgico scandito dalla memoria pasquale, che si rinnova di domenica in domenica in un succedersi ininterrotto, fino al compimento defini­tivo della storia quando il Signore verrà nella sua gloria.
E non è forse un caso che Giovanni presenti l'appari­zione del Risorto ai discepoli come una 'venuta' (per ben tre volte infatti si dice che «venne Gesù»). Gesù viene per stare di nuovo in mezzo ai suoi, come aveva promesso, viene là dove una comunità si raduna nel suo nome, viene in ogni celebrazione eucaristica come pegno e anticipo di quella venuta ultima promessa alla fine dei tempi.
E la sua presenza è così forte da vincere ogni paura, ogni chiusura (le 'porte sprangate'!), ogni smarrimento, ogni tristezza. I discepoli, dopo la morte del loro Maestro, se ne stanno ancora rintanati, impauriti e increduli. Ed ecco che Gesù viene, si fa loro vicino, si ferma «in mezzo», non a margine bensì proprio al cuore della loro paura, del loro scoraggiamento, della loro incapacità a rialzarsi dopo la delusione provata per il 'fallimento' della croce. Sta in mezzo e la prima parola che pronuncia è: «Pace a voi!», e il primo gesto che fa è quello di mostrare le mani e il fianco. Parola e gesto profondamente uniti: la pace offerta nasce infatti dalla sua vita interamente donata; i segni della sua passione - le mani trapassate dai chiodi e il fianco trafitto - sono lì, davanti a tutti, a testimoniare il suo amore giunto «sino alla fine». Questa è la pace che il mondo non può dare perché è una pace che viene da Dio ed è una pace vera perché capace di distruggere l'odio e la menzogna fino alle loro radici. Quando in ogni eucaristia ci scambiamo il 'segno di pace' dovremmo ricordarci di chi è e da dove viene questa pace.
«E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Dalla paura e dalla tristezza i discepoli passano alla gioia, una gioia intensa e profon­da. La presenza del Risorto crea una comunità in cui regna la pace invece della paura, la fiducia invece della diffidenza, la libertà invece della schiavitù. E una comunità finalmente aperta, in missione, non più chiusa e ripiegata su se stessa.
Questo è il motivo di lode e di benedizione espresso da Pietro nella 2 lettura: “Sia benedetto Dio che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo…per una speranza viva…”.
Da questo incontro con il Risorto nasce e si edifica la comunità dei credenti che, nonostante le difficoltà e paure (di cui ci parla il vangelo) ci viene presentata, nel libro degli Atti (1 lettura) capace di “perseverare” e di crescere fondata su l’ascolto della Parola, la frazione del pane, la preghiera e la comunione fraterna; quattro pilastri che devono stare a fondamenta di ogni comunità cristiana.
Anche noi oggi dunque siamo chiamati a fare della domenica il giorno del Signore, perseverando nel partecipare a questo giorno per fare esperienza della Sua presenza che salva e ci dona misericordia e pace. Se il Risorto è colui che «sta in mezzo» alla sua comunità, alla sua Chiesa, quest'ultima diventa allora il luogo privilegiato (non unico) per incontrarlo: finché Tommaso sta fuori dal cenacolo non ha la pos­sibilità di incontrare il Risorto e continua a dubitare; nel momento che accetta di entrare nello spazio della comunità radunata, ecco che il Risorto viene e si fa a lui presente. 
«Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro». Tommaso ci è di esempio nel suo cercare il Signore: lui non si accontenta facilmente dell'esperienza riportata da altri ma vuole 'toccare con mano' come stanno veramente le cose. Ci ricorda che il credere non deve essere semplicemente l’accettare passivamente quello che altri ci dicono, ma esperienza e incontro personale con il Signore. Certo questo deve portarci allora a superare il nostro essere ‘cristiani passivi’ (tali solo perché altri ci hanno fatto diventare cristiani), per aprirci alla beatitudine di una fede che va oltre il toccare e ci apre alla capacità di ascoltare, accogliere e amare Colui che arriviamo a riconoscere “Mio Signore e mio Dio”, centro e punto unico di riferimento per la nostra vita. A noi infatti è riservata la beatitudine che chiude il racconto, la beatitudine di coloro che cre­dono pur “non avendo visto”. «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia» ci ricorda Pietro nella sua lettera. Amore e fede tuttavia che nascono, crescono e maturano proprio attraverso l’incontro settimanale nella comunità. Nessuno ci può togliere la gioia di incontrare il Signore «otto giorni dopo», cioè nel tempo della memoria della sua Pasqua, nel giorno in cui la Chiesa si riunisce per celebrare l'eucaristia domenicale; e nello spazio di una comunità raccolta nel suo nome, che vive della sua presenza, nei segni del pane e del vino, nella parola proclamata, nell'essere suo corpo vivente.

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