Romualdo non è
affatto il monaco «classico», posato, facilmente etichettabile e definibile. Se
ne era già accorto un suo contemporaneo, san Pier Damiani, suo discepolo e
ammiratore, scrivendo la sua vita, un po' seccato dal suo eroe che sfugge
decisamente alle regole di convenienza quali si addicono a una «buona vita» di
monaco o di eremita. Naturalmente non osa dipingerlo come «girovago»
instabile, come un uomo che non sa quel che vuole, anche se, ad essere sinceri,
Romualdo ha l'aria di essere proprio così. Pensate: prima cenobita, poi
eremita o addirittura recluso; abate del monastero dove ha fatto la professione,
dà le dimissioni dopo un anno di governo; fondatore di conventi e di eremi,
eccolo all'improvviso in viaggio verso terre lontane per unire il suo sangue a
quello dell'Agnello... Ma non oltrepassa nemmeno la frontiera delle Alpi che
già se ne ritorna verso la sua cara Italia e predica, «simile a un serafino»,
con una passione tale da non resistere fuggendosene così singhiozzando nella
solitudine. Per mesi è in prigione, poi fonda Camaldoli, il Santo Eremo che un
giorno lascerà in lacrime per terminare, solitario in Val di Castro, la sua
vita solitaria.
Pier Damiani cerca di farci credere
che se «il santo uomo cambia continuamente posto è senz'altro perché, appena
arriva da qualche parte, subito le folle lo assalgono. E appena vede che il
monastero o l'eremo che ha fondato è in grado di essere autosufficiente, se ne
va subito». E certo una
spiegazione «ragionevole», accettabile, ma la verità sembra essere un'altra.
Romualdo
è uno di quei rari uomini adatti soltanto all'assoluto; che non si lasceranno
mai far prigionieri da nulla, per quanto valido o sacro possa sembrare; uno di
quegli esseri che non potranno mai rientrare in nessuna categoria perché
posseduti, diretti da quell'«inebriante» Spirito di Dio del quale Gesù stesso
diceva un giorno al vecchio Nicodemo: «Soffia dove vuole e tu non sai da dove
venga o dove vada» (Gv 3,8).
Paolo di Tarso dirà: «Là dove c'è lo spirito c'è la libertà» (2 Cor
3,17). E san Pier Damiani riconosce che proprio lo
Spirito della folle Sapienza «presiede» l'anima di Romualdo. (...)
Quando le circostanze disperdono il
piccolo gruppo eremitico che si è ormai formato intorno a lui, Romualdo prende
il suo mantello e se ne va, malgrado la collera dei contadini della zona per i
quali egli è l'eremita amico. Si finge pazzo per non essere messo a morte. Si
dirige verso Ravenna dove suo padre, convertitosi di recente, è entrato nel
monastero di san Severo; Romualdo vuole raggiungerlo al più presto per
fortificarlo nella sua decisione. Accanto a lui continuerà la sua vita di
solitudine nelle insalubri paludi di Classe, poi presso la Chiesa di san
Martino della Foresta.
Non mancano le prove né gli assalti
dell'Avversario. Già a Cuxa si era aperta la guerra tra lui e Satana; finirà
solo con l'entrata nel Regno. Romualdo trova la sua forza e la sua serenità in
un indomabile e tenero amore per il Cristo: «Caro Gesù, amato Gesù, perché mi
hai abbandonato? Mi hai dunque consegnato nelle mani del Nemico? O Cristo,
vieni in mio aiuto!». Ma ancora più crudeli saranno i colpi inferti dai
fratelli, da quelli che spesso han chiamato Romualdo a diventare loro maestro e
padre. (...)
Questa è la difficile scuola alla quale Romualdo impara
ad essere quell'uomo Ubero, quel «folle in Cristo» tutto preso dal cielo,
quell'uomo spirituale dal volto radioso che niente riesce a fermare nel suo
cammino verso l'amorosa conoscenza di Dio e la fratellanza uni versale,
questo «padre teoforo» che impressiona gli uni, seduce gli altri, accogliendoli
con gioia nella sua solitudine, profeta diventato interamente fuoco che infiamma
i cuori di desiderio del cielo.
L.A. Lassus, I
nomadi di Dio, pp. 105-111
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