Una Pasqua nuova… nelle case.
Mi sembra opportuno offrire alcuni suggerimenti per celebrare e vivere la Pasqua in casa. In forza del nostro comune “sacerdozio battesimale” siamo abilitati a celebrare quel culto spirituale che ci è proprio vivendolo insieme come famiglia, piccola chiesa, luogo e spazio dove quotidianamente viviamo quali figli di Dio abitati dallo Spirito.
Mi sono lasciato aiutare da alcuni spunti presi da “L’Osservatore romano” (un articolo di Sergio Massironi del 28.3.20) e da un articolo di Antonio Torresin (trovato online).
Inoltre allego: il SUSSIDIO DIOCESANO ( liturgia.diocesidicomo.it ), completo con ricco materiale e suggerimenti, e un sussidio pensato anche per i bambini e i ragazzi in famiglia: Riti e parole per fare Pasqua . Qui mi limito a indicazioni semplici e brevi.
Ognuno ne tragga l’utilizzo che preferisce; l’importante è non ridurci a celebrare una ‘pasqua televisiva’ come spettatori passivi, ma soprattutto riscoprire il nostro sacerdozio battesimale e viverlo, ora, in una situazione di limitatezza e prova, e un domani, continuando l’esperienza del pregare insieme nelle nostre case, così da ritrovare il gusto di vivere i momenti comunitari nelle chiese con rinnovata e attiva partecipazione.
Quest’anno non possiamo celebrare la Pasqua insieme, nelle nostre chiese.
Dobbiamo in ogni caso “celebrare la Pasqua”. Ma come?
La celebreremmo nelle case. Come il popolo di Israele in esilio – quando appunto era senza tempio, senza sacerdoti – ha iscritto la celebrazione della Pasqua nella ritualità familiare, così dobbiamo imparare a celebrare nelle case. Lo spazio della casa è chiamato a diventare luogo del culto spirituale, dove «offrire i vostri corpi» (Rm 12,1), come dice Paolo. Le relazioni più intime, se vere, se vissute in Cristo, diventano «tempio dello Spirito» (1Cor 6,19). Accade già, ogni giorno, nella cura del cibo, nella cura del corpo, nella malattia, nell’amore… ma ora tutto questo deve essere celebrato in memoria della Pasqua di Gesù.
Ogni famiglia deve inventarsi uno spazio con dei segni che richiamino la fede: un cero, un crocifisso, una tovaglia particolare che viene messa sulla tavola nei momenti celebrativi… Tutto questo poi potrebbe rimanere come un’esperienza che si può sempre ripetere: possiamo celebrare la fede nelle case, nella vita quotidiana, in ogni giorno.
E chi è solo? Chi nella casa vive isolato? Certo sarebbe bello se le nostre case, nel piccolo, si aprissero per momenti di preghiera condivisi. E se si rimane soli si celebra lo stesso, perché «il Padre vede nel segreto» (Mt 6,6) della tua stanza e ascolta le tue preghiere forse ancora di più perché segrete!
E le chiese? Rimangono aperte. Perché rappresentano il segno che la fede non è mai un fatto individualistico e neppure “familistico”. C’è una famiglia più grande, nella quale ciascuno è inserito, di cui sentirsi parte, fratelli e sorelle e tutti insieme figli e figlie. Per questo serve una parola che venga dalla Chiesa. Quale e come? Ascoltare la predicazione del papa ci fa sentire parte di una Chiesa universale, ascoltare la parola del Vescovo ci inserisce nella Chiesa particolare di cui siamo parte; poter ascoltare anche una parola che viene dalla nostra parrocchia, richiama il legame più prossimo con una concreta comunità di credenti. Per questo è utile che i mezzi di comunicazione rendano possibile ascoltare, restando a casa la parola della Chiesa. Questa parola non sostituisce, però, la celebrazione, vuole aiutarla, renderla possibile, metterla in moto.
Forse questa “emergenza” è l’occasione perché «emerga» il popolo di Dio come soggetto vivo della fede. Non come soggetto passivo, che assiste ad un rito che altri per lui celebrano, ma che si scopre «popolo sacerdotale», in grado di celebrare.
Ogni credente deve imparare non ad “assistere” ma a celebrare attivamente. Ora può e deve farlo, altrimenti rimane un vuoto incolmabile. Questo in realtà è vero sempre: in ogni celebrazione, anche in quelle che normalmente facevamo nelle nostre chiese, anche in quelle solenni nelle cattedrali, il soggetto celebrante è tutta l’assemblea!
Ma allora che suggerimenti potremmo dare per celebrare il Triduo pasquale nelle case? Vogliamo credere, insomma, che questa Pasqua rimarrà nella memoria dei nostri bambini perché avranno guardato il vescovo in tv e il parroco su un tablet, o perché avranno compiuto con i propri genitori dei gesti nuovi e di particolare eloquenza?
Non nascondiamoci che siamo disabituati alla preghiera comune e che le celebrazioni del Triduo pasquale, cuore dell’anno liturgico, non sono avvertite come determinanti da larga parte dei fedeli.
E se ora qualcosa si rimettesse in moto dall’interno di alcune o di molte case? È una possibilità che lasciano almeno intravvedere gli elementi chiave della liturgia stessa, che quest’anno ci induce a riscoprire nella loro più elementare loquacità.
Il giovedì santo, ad esempio, i segni forti della vita di Cristo potrebbero svilupparsi attorno alla tavola, all’ora di cena. Immaginiamo che si raduni l’intera famiglia, ma che anche chi vive solo prepari la tavola con una certa importanza. Dopo una breve introduzione, che comporti una sorta di saluto, o di abbraccio di pace tra i presenti, la preghiera potrebbe avviarsi con la lettura di Giovanni 13,1-5 e 12-15, alla quale far seguire, se le circostanze di casa lo consentono, la lavanda dei piedi reciproca tra gli sposi e poi dei figli, piuttosto che ciascuno del suo vicino... Questo per ricordare che l’eucaristia è celebrata quando ci mettiamo a servizio gli uni degli altri.
Si potrebbero rileggere anche i testi che istituiscono il memoriale della Pasqua (dal libro dell’Esodo cap.12,1-8 e 11-14, dalla prima lettera di Paolo ai Corinti cap.11,23-26) oppure pregare insieme il salmo 135 (136) detto ‘Grande Hallel’, cantato dagli ebrei nella cena pasquale.
La vera e propria cena potrebbe poi avviarsi, anche per le persone sole, con una preghiera di benedizione della mensa: «Benedetto sei tu Signore nostro Dio che riunisci i tuoi figli come virgulti di ulivo intorno alla tua mensa, donandoci l’abbondanza dei tuoi doni. Sii benedetto in questa notte in cui il tuo unico Figlio sapendo che era giunta la sua ora, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine; a te per primo si offrì vittima di salvezza e comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria. Il suo corpo è nostro cibo e ci dà forza; il suo sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa. Custodisci tutti noi nell’unità del tuo amore. Per Cristo nostro Signore. Amen».
Al centro della tavola un unico grande pane, invece di molti panini, acquistato o preparato in casa durante la giornata. Dopo la benedizione, un membro della famiglia potrebbe spezzare l’unico pane e distribuirne un pezzo a tutti, senza nulla dire. Spezzare un pane e condividerlo può rimandare al senso di quello che ogni domenica viviamo con tutti i credenti. Quindi la cena proseguirebbe nella consueta e se possibile più intensa convivialità.
Il venerdì santo. Al centro c’è la croce di Gesù e il racconto della sua morte. Vale la pena di creare un momento di particolare raccoglimento, in ogni famiglia, magari alle 15.00 nell’ora in cui «si fece buio su tutta la terra». Si potrebbe prevedere che nel primo pomeriggio le persiane vengano socchiuse e le tapparelle leggermente abbassate, siano spente anche le luci e ogni altro strumento tecnologico, così che per circa mezz’ora tutto sia avvolto da un grande silenzio. Alle tre si convergere attorno al crocifisso, là dove in casa è appeso, oppure appoggiato sul tavolo. Davanti alla croce tre momenti potrebbero essere celebrati: il racconto della passione e morte del Signore (dal Vangelo di Giovanni: cap.18,1-19,42) ; il bacio alla croce (che diventa intimo, familiare, passando il crocifisso di mano in mano); e la preghiera universale, perché la croce ci raccoglie tutti. Questa potrebbe svolgersi con un annuncio di preghiera (es. preghiamo… per la Chiesa tutta, per il Papa, per il Vescovo Oscar, tutti i presbiteri e i diaconi, tutto il popolo di Dio; per i catecumeni che si preparano a ricevere il Battesimo; per gli Ebrei e per tutte le diverse religioni; per i governanti; per i malati e i morenti; per i medici, gli infermieri e tutti i volontari…), segue breve silenzio dove ognuno prega e una acclamazione da parte di tutti introdotta da chi presiede con “noi ti invochiamo”: “Signore ascoltaci e abbi pietà di noi!”. Si conclude riponendo il crocifisso in un luogo ben visibile della casa.
Il Sabato Santo. E’ un giorno particolare dove regnano il silenzio e l’assenza di celebrazioni. Abbiamo vissuto tutta la quaresima come un lungo Sabato Santo di silenzio e senza riti. Questo giorno lo si potrebbe consacrare al silenzio. Si pongono i segni (una candela spenta, un crocifisso coperto, una tavola spoglia) ma sono segni dell’assenza. Vivere la mancanza come grembo del desiderio, come tempo nel quale prepararsi all’incontro. In casa si potrebbe preparare tutto quello che poi nel giorno successivo, vuole essere motivo di festa: il cibo, i fiori, un disegno…
La notte del sabato santo: la fine di ogni notte. Sebbene la veglia pasquale sia irriproducibile nella sua forza, è molto importante che la tenebra così profonda che ha avvolto la vita collettiva sia attraversata da segni che interrompano la notte.
Molto semplicemente, sarebbe bello nel buio e nel silenzio più profondo, a un’unica ora definita insieme, le campane della parrocchia (o della Diocesi tutta) suonassero a festa per diversi minuti, annunciando la risurrezione. In quel momento tutti potrebbero accendere in casa un cero (lo si utilizzerà per i momenti di preghiera insieme nei giorni del tempo pasquale) e mettere un lume sul davanzale delle proprie finestre e insieme rinnovare le promesse del battesimo dal quale scaturisce la vita nuova dei figli del Padre, risorti con Cristo, abitati dallo Spirito.
La mattina di Pasqua, poi, donne della risurrezione potrebbero diventare mamme e figlie, che rendano bella la casa con dei fiori, là dove possono essere raccolti. E se a tavola tornassero — anche con una torta — latte e miele che secondo la Tradizione apostolica venivano offerti la notte di Pasqua ai neo-battezzati, perché assaporassero la dolcezza della vita nuova?
La domenica di Pasqua la si vive come ogni domenica senza la celebrazione della messa in chiesa. Una celebrazione della Parola – non mancano i sussidi televisivi che ogni chiesa cerca di offrire per il suo popolo – che si conclude con una festa, un pranzo condiviso, un momento di gioia, di augurio, di speranza. Magari anche, superando ogni imbarazzo, salutarci l’un l’altro così come fanno gli orientali, con l’esclamazione: «Cristo è risorto!» cui si risponde «Sì. E’ veramente risorto! Alleluia!».
Senza dimenticare chi è solo: si potrebbe decidere di telefonare a amici e parenti, a chi sappiamo essere solo per uno scambio di auguri, per dare una parola di vicinanza e di speranza. Lo dobbiamo fare spesso, ma forse ancor più in un giorno come questo.
Ora, un Triduo strano come questo, va preparato. «Dove vuoi che prepariamo per celebrare la Pasqua?» (Mt 26,17) chiedono i discepoli a Gesù. Scopriamo anche questo: non si celebra la Pasqua se non la prepariamo. Non è come andare al cinema che basta recarsi nelle sale, pagare un biglietto e poi assistere.
La Pasqua non la si assiste, la si celebra e quindi ci si prepara, forse questa volta come mai prima.
Dunque a tutti l’augurio di una buona Pasqua di risurrezione!
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