venerdì 6 luglio 2018

XIV° domenica del Tempo ordinario


“Venne nella sua patria... il sabato… nella sinagoga”: Gesù in mezzo a coloro che lo conoscevano fin da piccolo, che lo avevano visto crescere. Sembra dunque scontata l’accoglienza, la comprensione, il riconoscimento per quanto diceva e faceva. E invece… Allo stupore iniziale, “molti ascoltando rimanevano stupiti”, fa seguito una cascata di domande che in sintesi stanno a dire: ‘Ma chi pensi di essere? Sappiamo tutto di te, sei come noi, uno dei nostri’.
Gesù non viene capito dai suoi: appare loro troppo diverso da come lo conoscevano; per questo non lo ascoltano e non credono in ciò che lui dice di essere: l’inviato di Dio, il profeta-Messia.
Anzi “era per loro motivo di scandalo”. ‘Figurati se Dio può ridursi ad essere “il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone”.
Così sicuri di sapere tutto di Dio, hanno la pretesa di rinchiuderlo nelle loro certezze; lo rifiutano per quello che veramente è e non gli credono. Non avrebbero avuto difficoltà ad accoglierlo se si fosse presentato loro con i tratti della straordinarietà e del prodigioso, o della forza e della potenza. Ma Gesù si presenta loro come un uomo normale, uno di loro, di cui sanno tutto: da dove viene, come è cresciuto, il mestiere che ha appreso, i legami parentali. Come può nascondersi dietro tutto questo la novità di Dio, Dio stesso?
Il dio delle loro immagini si scontra con il Dio reale che si rivela nell’uomo Gesù di Nazaret. Incapaci di cogliere la manifestazione di Dio nella fragilità e quotidianità di un’esistenza pienamente umana, si chiudono nella loro incredulità, nel rifiuto.  Non si lasciano né interpellare, né provocare fino in fondo dalla sua presenza, pur di non mettere in discussione il loro mondo, le loro sicurezze.
Eppure quella gente andava ogni sabato alla sinagoga, leggeva le Scritture, pregava e cantava; ma nonostante ciò, hanno riconosciuto la novità di Dio che li visitava.
Questo ci ricorda che la fede non è fare qualcosa, ma accogliere Qualcuno; quel Dio così come è e non come lo vogliamo, come Lui si manifesta e non come a noi fa piacere immaginarlo.
Ecco l’invito che oggi si rinnova per noi. Come quella gente di Nazaret, anche noi veniamo in chiesa alla domenica, leggiamo le Scritture, preghiamo e cantiamo, facciamo processioni e quanto più, ma alla fine lo accogliamo oppure, di fatto, lo rifiutiamo perché troppo diverso dalle idee che ci siamo fatte, perché non vogliamo rinunciare a una religione tutto sommato comoda, che ci fa sentire ‘giusti e buoni’ solo perché facciamo determinate cose? Ma Dio in Gesù non è venuto per tranquillizzare le nostre coscienze, per farci sentire ‘a posto’, ma per rovesciare i nostri convincimenti e farci sentire ‘fuori posto’, bisognosi sempre di conversione, di ricerca, di apertura.
E’ un Dio, quello rivelato in Gesù, che ci interpella e ci chiama a riconoscerlo soprattutto nell’umano, nella fragilità della persona, nella debolezza della nostra natura. Un Dio fatto uomo e presente dentro la nostra umanità, in ogni uomo e donna. E’ questo lo scandalo dell’incarnazione: che ci impedisce di chiudere Dio nella certezza delle nostre idee, ma ci costringe a ricercarlo e riconoscerlo dentro l’umana esperienza, così segnata da fragilità e debolezza.
Il vero Dio (non quello che noi immaginiamo) è sempre altro e oltre. E’ un Dio che da sempre abita la fragilità. Nella fragilità del profeta, come ci ricorda la prima lettura, il suo Spirito opera, lo fa alzare in piedi e parlare e “ascoltino o non ascoltino.. sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. Lo stesso Paolo riconosce che proprio nella debolezza che sperimenta, come “spina nella carne” che lo limita, opera la grazia di Dio: “Ti basta la mia grazia: la forza si manifesta pienamente nella debolezza”. Per questa certezza di un Dio presente dentro la nostra fragilità può esclamare: “quando sono debole è allora che sono forte”. Così è nell’umanità di Gesù, il nazareno, “il falegname, figlio di Maria”; in questa fragilità umana è presente quella Divinità che agisce e salva.
Questi è il Dio che Gesù ci rivela; Lui siamo chiamati a riconoscere, ad accogliere, a credere. Perché questo avvenga occorre tuttavia saper uscire dalla presunzione di sapere già tutto di Lui. Occorre disporci a uno sguardo diverso che impara a riconoscerne la presenza là dove nessuno oserebbe farlo; occorrono occhi nuovi, gli occhi della vera fede, “occhi rivolti al Signore”, come abbiamo pregato nel Salmo. Occhi che sanno andare oltre le apparenze e riconoscere il Dio incarnato, presente lì dove fragilità e debolezza parlano invece di vuoto. Il Dio di Gesù è il Dio che riempie il vuoto dei nostri limiti, gli abissi delle nostre fragilità. Il Dio che abita l’umanità fino a farsi uomo. Significa allora riconoscerlo nelle persone che incontro, che apparentemente non sono affatto amabili, diversi da me per carattere, nazionalità, religione… Accoglierlo nel povero, nel debole, in quell’umanità che non conta, che non emerge, che non è al top! Più facile una religione delle feste, di un Dio esaltato e inneggiato con canti e gesti esteriori, ma poi dimenticato e rifiutato nella concretezza del quotidiano, nell’umanità che ogni giorno mi interpella e mi provoca.  Gli occhi della fede sono quelli che lo sanno qui dentro scoprire e accogliere.
E solo così allora potremo fare esperienza della forza del suo amore, dei prodigi della sua bontà. A Nazaret “non poteva compiere nessun prodigio”. E da noi? Una cosa tuttavia è certa: se anche noi restassimo chiusi nei nostri schemi e nel nostro rifiuto, Lui continua “a percorrere i villaggi d’intorno, insegnando”. L’amore non può essere fermato, nemmeno dall’incredulità. L’amore va sempre oltre. Peccato che siamo noi a sciupare l’occasione di farne esperienza.

domenica 1 luglio 2018

XIII° domenica del tempo ordinario


Il vangelo di oggi ci pone davanti due episodi intrecciati e simili.
Due donne, una adulta l’altra bambina; entrambe segnate da malattia e morte, alla ricerca di salute, felicità, vita.
Tutte due sono una soggetto l’altra oggetto di un gesto trasgressivo: il toccare. La donna “toccò”; “se anche solo riuscirò a toccare le sue vesti sarò salvata”. La bambina invece viene toccata da Gesù che “prese la mano della bambina e le disse ‘Talità kum’: alzati!”.
Gesto trasgressivo questo toccare; perché? La donna con le perdite di sangue era considerata dalla legge impura e le era assolutamente vietato ogni contatto con alcuno (allo stesso modo dei lebbrosi!); così pure la legge vietava di toccare un cadavere.
Nonostante ciò tutto va verso la trasgressione del toccare, dell’entrare in contatto, dello stabilire una relazione con l’altro.
E questo toccare, è accompagnato, in tutte e due gli episodi, dalla fede: “Non temere soltanto abbi fede”; “Figlia la tua fede ti ha salvata”. Una fede audace e più forte del male e della morte; questa fede in una persona, Gesù, porta al ritrovamento della vita in tutta la sua pienezza, vuoi per la donna malata, vuoi per la bambina morta.
Un ultimo particolare che unisce le due figure femminili: il numero 12. La donna era malata “da dodici anni”; la bambina “aveva dodici anni”. Sappiamo come siano importanti per gli ebrei i numeri e il loro simbolismo. Dodici, come le 12 tribù d’Israele, come i 12 apostoli, sta a indicare tutto il popolo; è simbolo di totalità, di universalità. Quasi a voler sottolineare che quella donna e quella bambina rappresentano tutta l’umanità, tutti noi.
Tutti noi che ancora oggi soffriamo di “perdite di sangue”.
Il sangue, nella Bibbia è sinonimo di vita. Perdere sangue, sta a dire perdere vita. Oggi viviamo tutti in continua perdita di vita, stremati, ansiosi, in mezzo a conflitti e competizioni, mentre la paura regna sovrana. E’ una umanità che “perde vita” in continuazione. Insoddisfatti e scontenti; mai appagati di quello che abbiamo e facciamo. Le nostre famiglie e comunità sono segnate da ferite, da emorragie, da perdita di pace, di serenità, di amore.
Contro questo essere in “perdita di vita”, contro tutto ciò che contrassegna di paura e di morte il nostro oggi, la Parola ci dice che occorre tornare a “toccare” e a “lasciarsi toccare e prendere per mano” da Gesù, come quella donna, come quella bambina.
Solo un’umanità che ritrova il coraggio di “toccare”, cioè di entrare in relazione personale, vitale con Gesù può ritrovare vita.
Questo è quanto di più trasgressivo possiamo e dobbiamo osare. Entrare in una relazione profonda e vera con Lui, superando ogni paura, “gettandoci davanti a Lui” come quella donna che esce dall’anonimato della folla. Solo così potremo sentirci dire: “Figlia, figlio, và in pace e sii guarito dal tuo male”.
Toccare Gesù e lasciarsi toccare da Lui significa toccare l’amore, ripartire dall’amore.
La donna malata tocca Gesù, tocca l’amore. Un tocco segreto, nascosto, ma deciso. Deciso a toccare l’amore, deciso a ripartire dall’amore. Guarisce.
Gesù tocca la bambina, l’Amore tocca la bambina e la vita riparte, rinasce, risorge.
L’amore, consapevole o meno, funziona comunque, sempre, su tutto. L’amore di Dio che visita l’amore dell’uomo questo guarisce l’umanità e apre le porte alla pace, alla serenità, alla felicità che andiamo cercando.
E’ l’amore che rende felici e che sana il dolore  e le sofferenze. Non c’è crescita interiore senza amore, non c’è crescita in famiglia e nella comunità cristiana, non c’è crescita nelle relazioni, nell’affetto senza amore. La vera follia è vivere senza amore, affrontare gli eventi senza amore, non amare ciò che accade, diventare nemici di tutto e di tutti. Non c’è invece cosa al mondo più saggia e vantaggiosa per la propria persona che cominciare ad accettare con amore tutto ciò che ci accade; non c’è bene più alto per la propria salute interiore e fisica che iniziare ad amare la realtà, la vita, le persone del nostro presente. Quando ti svegli al mattino, chiediti se non puoi amare un po’ di più, anche solo un po’. Non c’è nulla al mondo più potente della fede nell’amore, della totale fiducia che, amando la realtà, il mondo, tutto può cambiare.
Questo amore, perché sia autentico, deve scaturire da Gesù, dal contatto con lui che ci comunica la vita stessa di Dio. Quel Dio  che “non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”, ma che ha voluto “le creature del mondo portatrici di salvezza”; Dio ti ha fatto sano e buono ci ha detto il libro della Sapienza, “a immagine della propria natura”, e questa natura altro non è che amore. Noi siamo fatti a immagine dell’amore e viviamo solo se amiamo. Solo nell’amore vissuto seguendo Gesù, con lo stile di Gesù, che “da ricco che era, si è fatto povero per voi perché voi diventaste ricchi per la sua povertà”, noi possiamo ritrovare pace, serenità, vita, pienezza. Un amore quello di Gesù che diventa offerta e dono, “offerta di sangue” per noi; il suo sangue versato è il segno più alto dell’amore vero. Esso viene a rinvigorire il nostro “sangue perso”: la sua vita donata, diventa per noi vita ritrovata.
Energia di vita l’amore, senza la quale si va solo verso la morte.
Lasciamoci prendere per mano da Gesù entriamo nella relazione d’amore con Lui per imparare ad amare per vivere.
“Talità kum”: risuoni anche por noi questo invito bellissimo che Gesù dice a tutti noi: “fanciulla umanità, svegliati! alzati”. E’ l’invito a decidere pian piano, ma con assoluta determinazione, di imparare ad amare tutto ciò che facciamo e viviamo. Se non amiamo blocchiamo tutte le energie, tutte le nostre possibilità di sviluppo e felicità: tutto diventa perdita di vita. Uomo o donna che tu sia svegliati, invece di soffrire di emorragia puoi essere contagio di gioia e di serenità. Svegliati, alzati. Amare si può. Amare, con Gesù e come Lui, può essere la risposta che andiamo cercando.

lunedì 25 giugno 2018

CONCERTO

Santuario della Beata Vergine del Soccorso a Ossuccio
sabato 30 giugno 2018, ore 18:00

CONCERTO


In Memoriam

125° della morte di Piotr Ilic Tchaikovsky e 75° della morte di Sergej Rachmaninov

Musicisti

Evelina Dobraceva, soprano
Paolo Bressan, Louis Lortie, Georgy Tchaidze e Nathanael Gouin, pianoforte
Christine Lee e Astrig Siranossian, violoncelli

Musiche

TCHAIKOVSKY
Otchego op.6 n.5
Sred shumnogo bala op.38 n.3
RACHMANINOV
U moego okna op.26 n.10
Sumerki op.21 n.3
Kak mne bolno op.21 n.12
ROM
Ne poj krasaviza
TCHAIKOVSKY
Andante cantabile dal Quartetto n.1 op.11 in re maggiore
Kolybelnaja pesna op.16 n.1
Kaby snala ja op.47 n.1
Den li zarit op.47 n.6
ROM
Kyrie
TCHAIKOVSKY
Les nuits de mai e Barcarolle da Le stagioni op.37a
Net Tolkien tot kto snal op.6 n.6
Serenada op.63 n.6
RACHMANINOV
Rechnaja lileja op.8 n.1
Ja zhdu tebja op.14 n.1
Eti letnie nochi op.14 n.5



 INGRESSO GRATUITO

venerdì 22 giugno 2018

Natività di Giovanni il Battista


Il vangelo ascoltato mette in evidenza l’evento della nascita di Giovanni il Battista, di cui celebriamo oggi la festa. Nella prima lettura il brano di Isaia risuona come profezia di questo evento “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome”. Infine il brano degli Atti, nella seconda lettura, è quasi una sintesi della missione del Battista, attraverso la testimonianza di Paolo.
Una Parola dunque che vuole sottolineare l’importanza di questo evento all’interno del grande disegno di salvezza che la Bibbia ci rivela: Giovanni è l’ultimo dei profeti ed è il precursore e annunciatore di Colui che sarà Messia e Salvatore.
Importante questo fatto anche per noi cristiani di oggi, richiamati, in questa festività, a soffermarci almeno su alcune sottolineature che la Parola ci suggerisce.
Innanzitutto siamo invitati allo stupore: è lo stupore che nasce dal riconoscere il disegno di Dio che si compie in Giovanni e così pure in ciascuno di noi. E’ lo stupore del riconoscerci, come Giovanni, da sempre pensati e amati, voluti e desiderati, da un Dio che fa di ogni creatura “una meraviglia stupenda”. Ci aiuta a manifestare questo stupore il salmo responsoriale (138): “Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda”.
Siamo poi chiamati a riconoscere che, dietro al dono della vita, di ogni vita, c’è una missione, un compito. Non solo siamo pensati e voluti, bensì anche ‘incaricati’, mandati. Per Giovanni si prospetta una missione altissima: annunciare che “viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”; è il preparare la strada a Gesù. E’ essere a servizio della sua Parola e Presenza. Ma questa è anche la nostra missione oggi; la missione di ogni cristiano, pensato, amato e voluto per essere un raggio di luce dentro il mondo, un richiamo luminoso di Colui che è la luce del mondo. Anche per noi sono le parole di Isaia: “E’ troppo poco che tu sia mio servo… io ti renderò luce delle nazioni”.
Infine una terza sottolineatura. E’ l’invito a riconoscere la novità che ogni vita e ogni missione porta in sé. Nel Vangelo ha uno spazio considerevole la questione del nome: “volevano chiamarlo col nome di suo padre… ma sua madre intervenne: ‘No, si chiamerà Giovanni’… domandavano con cenni a suo padre… egli scrisse ‘Giovanni è il suo nome’”. C’è qualcosa di nuovo in tutto ciò. Non più secondo le usanze e le tradizioni; ma un nome nuovo, per una missione nuova. Quasi a ricordarci che ognuno di noi non è freddo ripetitore di quanto è nel passato, ma costruttore di un futuro di novità. In ciascuno c’è un futuro di novità che ci supera, che va oltre ogni usanza e tradizione, che porta ogni creatura ad essere nella storia una novità, un orizzonte che si apre e non un cerchio che si chiude dentro le strette mura di una famiglia, di una comunità, di una cultura... E’ così importante saper riconoscere la novità che è in ciascuno che, nell’episodio della nascita del Battista, davanti a questo riconoscimento avviene per Zaccaria il ritrovato uso della parola; lui che, proprio per non aver creduto alla novità di Dio, era rimasto muto. Credere nella novità di Dio e accoglierla nelle persone che entrano nel cammino della nostra vita non può che aprirci alla lode e alla benedizione: “si aprirono la sua bocca e la sua lingua e parlava benedicendo Dio”.
Mi sembrano tre semplici sottolineature che possono aiutarci a ripensare non solo alla figura di Giovanni, ma anche al valore della vita di ciascuno di noi e a saper riconoscere in essa il progetto di Dio che si compie.
Un ultimo particolare, ma niente affatto secondario. Tutto quanto abbiamo detto fiorisce in un contesto di debolezza e fragilità. Zaccaria ed Elisabetta erano nella vecchiaia e segnati dalla sterilità.
Quasi a ricordarci che proprio lì, dove umanamente tutto sembra impossibile, Dio sa operare meraviglie. Quasi a ricordarci che è la sua grazia che fa, che opera, che agisce; grazia più forte di ogni nostra umana fragilità. E Giovanni significa appunto “il Signore fa grazia”. Figlio della vecchiaia, figlio della grazia e figlio di una fede perseverante seppur faticosa: questi è il Battista.
Questi siamo tutti noi: figli amati del Padre, non per i nostri meriti, ma per sua grazia; figli chiamati a manifestare nel mondo la sua novità rivelata in Gesù, attraverso un cammino perseverante di fede.