Una riflessione di Franco Vaccari. Da "Avvenire" del 30.11.2025
Non c’è tempo per l’Avvento. Non c’è tempo perché quello esterno, convenzionale, è deformato, accelerato, dissolto, mentre quello interiore rischia di essere smarrito. Infatti: Attendere? Chi? Cosa? E, più radicalmente: cosa significa attendere?
Domande con sonorità arcaica, come oggetti smarriti in un museo linguistico.
“Attendere”, “aspettare”: vocaboli sbiaditi, parole che la tendenza dominante della nostra epoca ha riposto nel cassetto delle inutilità. Nella cultura dell’immediatezza, dove tra bisogno, desiderio e appagamento non esiste più alcun intervallo, il tempo dell’attesa è diventato un lusso, anzi, un fastidio, economicamente un costo.
C’è una fretta nell’aria, una impazienza febbrile, paradossale e grottesca se considerata con la perdita di orizzonte, di futuro, di mète chiare verso cui tendere.
C’è un’accelerazione verso l’indefinito – o verso il nulla – che non abbiamo scelto: una pressione costante in cui rischiamo di smarrire il bene più fragile e più umano: il nostro tempo interiore, il ritmo che ci permette di vivere, decidere, esprimerci.
Sant’Agostino lo riassume con una frase che respira da sola: tempus distensio animi. Il tempo come dispiegamento dell’anima: un’estensione intima, personale, che riafferma silenziosamente il primato della persona sul rumore del mondo.
È una dimensione minuta, non percepibile immediatamente, fatta di frammenti minuscoli che possiamo ancora custodire. È silenzio. A volte comincia da un gesto semplice: infilare la chiave nella toppa, fermarsi un istante, contare fino a dieci, e decidere con quale volto entrare in casa. O in ufficio, o in classe… nel piccolo intervallo ci restituisce a noi stessi. È la soglia che separa il reagire dal rispondere.
Tra noi e un cellulare c’è una differenza radicale: quando tocchiamo un’icona digitale, la reazione è immediata, automatica, sempre uguale. La vita, invece, quando “ci tocca”, apre uno spazio potenzialmente infinito: una soglia in cui possiamo scegliere, non reagire. In quella soglia sta tutto l’umano: libertà e responsabilità, decisione e non automatismo.
Dissolvere questo tempo intermedio è suicida, perché sostituisce la relazione con la mera connessione. C’è un’immagine che ci può aiutare a rendere visibile questa verità: la grande terracotta invetriata di Andrea della Robbia nella Basilica de La Verna, che raffigura l’Annunciazione. Non è un’Annunciazione eloquente: non insiste sulle parole dell’Angelo, né su quelle di Maria. Coglie il momento sospeso tra la richiesta e la risposta, quel frammento di libertà che nessuna urgenza può annullare. L’Angelo attende, quasi supplica. Maria ascolta, non reagisce: decide. È il tempo dell’umano, il tempo in cui la storia nasce.
Oggi stiamo rischiando di perdere questo tempo, di archiviare l’Avvento e sostituirlo con l’immediatezza, dove tra desiderio e soddisfazione non esiste più intervallo. Le nostre giornate sono segnate dall’impazienza al semaforo, l’irritazione per un cellulare che non risponde immediatamente, la ricerca compulsiva di soluzioni immediate – sostituendo l’attesa con un algoritmo. Nel culto del “subito” ogni pausa sembra una sconfitta. Eppure proprio l’intervallo è ciò che ci distingue dalla macchina. Nello spazio dell’attesa si custodisce l’umano: lì il desiderio si approfondisce, la ricerca matura, il dolore trova un varco per essere elaborato, l’amore smette di essere possesso. Senza attesa tutto implode: il desiderio si consuma, la ricerca diventa superficiale, la guarigione pretende miracoli, la fedeltà perde misura, perfino fare la fila – semplice esercizio di civiltà – viene percepita come rito insensato. Per questo l’immediatezza produce disumanizzazione.
In questo paesaggio culturale, l’Avvento è ancora di più una profezia per tutta l’umanità, ma rischia di non essere più compreso nemmeno dai cristiani: il ricamo della fede è infatti impossibile senza la stoffa umana.
Forse tutto può ricominciare per ciascuno da un gesto semplice: raccogliere i mille frammenti di tempo esterno che ci attraversano ogni giorno e saldarli con il ritmo del nostro tempo interiore. Ritrovare la soglia, il silenzio, l’intervallo, la libertà di rispondere.

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