sabato 26 agosto 2017

Ventunesima domenica del Tempo ordinario



Quando parliamo di Dio, abitualmente facciamo riferimento al mistero che avvolge la sua persona. Sebbene si debba intendere per mistero non tanto un non so che di misterioso e assolutamente inaccessibile, bensì una realtà che ci supera e che appare insondabile, inesauribile nella sua smisurata ricchezza.
Paolo nella seconda lettura esprime tutto il suo stupore davanti a questa “profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio”, ben consapevole che “i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie” (Is.55,8). “Chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?”.
Eppure questo Dio nascosto, insondabile, si è svelato, si è fatto conoscere; Lui si è aperto a noi, si è comunicato nella storia, nella nostra vita, attraverso Gesù.
Ed è proprio Gesù che, ormai a metà della sua missione tra gli uomini, sembra voler quasi verificare cosa la gente e i suoi discepoli abbiano colto e capito di Lui. “La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?”, “voi chi dite che io sia?”. Sono le due domande che risuonano nel vangelo. Domande rivolte oggi a noi.
All’incomprensione della gente, che reputa Gesù una riedizione aggiornata del passato (Giovanni Battista, Elia, qualcuno dei profeti), fa seguito, per bocca di Pietro, il riconoscimento dei discepoli che hanno saputo scorgere in Gesù, il mistero nascosto di Dio, riconoscendone tutta la carica di novità deposta in questo uomo: “Tu sei il Cristo (il Messia), il Figlio del Dio vivente” (colui che ci comunica il Dio della vita). E questa comprensione profonda viene non tanto da capacità intuitive umane, ma da Dio stesso che fa dono all’uomo di poter arrivare a riconoscere il suo volto rivelato nel Figlio.
Sappiamo anche noi riconoscere in Gesù questo volto e tutta la novità racchiusa nella sua persona? Chi è per noi Gesù?
Questa è la domanda centrale che ci è posta e sulla quale si gioca il nostro essere o meno discepoli suoi. Chi sono io per te?
Dobbiamo anche noi lasciarci interrogare, ogni giorno. E soprattutto dobbiamo imparare a ricercare e riconoscere il Dio che in Gesù si è manifestato.
Per far ciò tuttavia occorrono alcune condizioni necessarie. Innanzitutto una presa di distanza dalle proprie certezze e sicurezze (quello che già sappiamo, che ci hanno insegnato e sempre detto…) per fare spazio a una sempre nuova conoscenza e scoperta.
Poi una presa di distanza da quanto dicono gli altri, dai condizionamenti della ‘gente’, di una cultura che in ogni modo cerca di catalogare e incasellare anche Dio entro parametri del passato. Infine occorre non dimenticare che, ogni risposta che riusciremo a formulare, sarà pur sempre approssimativa perché Dio è inesauribile e sempre diverso da come noi lo possiamo pensare e scoprire.
Ma ciò che più conta è arrivare a questo incontro personale, a questo tu per tu con quel Gesù che non si stanca di domandare “Ma tu chi dici che io sia?”.
Se abbiamo il coraggio di confrontarci con Lui e di ricercare il suo volto, ebbene, questo incontro non può che trasformare la nostra vita. “Tu sei il Cristo” arriva a dire Simone; “E io a te dico: tu sei Pietro” risponde Gesù: gli cambia il nome, gli affida una nuova prospettiva di vita.
L’incontro con Lui ci cambia: cambia non tanto il nome, cambia soprattutto la vita. Gesù trasforma colui che lo ricerca, lo riconosce e lo accoglie, riponendo in lui tutta la sia fiducia. Quello che avviene con Pietro, si ripete, anche se in modi e forme diverse, anche con ciascuno di noi.
L’incontro con Gesù ha dato a Pietro e da a ogni suo discepolo, dunque anche a noi, solidità, responsabilità e libertà.
Ci rende solidi sulla roccia del suo amore, unendoci a lui per edificare, con lui e su lui, la sua chiesa.
Ci affida le chiavi, cioè la responsabilità di saper aprire le porte della vita, del regno di Dio ai nostri fratelli (sono le chiavi del paradiso… nel senso che noi possiamo essere di aiuto per tanti a entrare in una vita bella, buona, vera).
Ci offre infine tanta fiducia da lasciarci la possibilità di “legare e sciogliere”, cioè di saper offrire a tutti l’opportunità di svincolarsi dal male per legarsi all’Unico Signore che dona a tutti pienezza di vita e questo imparando a costruire relazioni fondate sulla misericordia, la correzione fraterna, il sostegno reciproco.
E’ pur vero che da sempre in queste righe la chiesa ha letto il primato, l’autorità, affidati a Pietro: ma se di primato si tratta è pur sempre un primato di amore, di servizio al fine di manifestare il volto del Padre, di offrire a tutti la sua misericordia, di aprire a tutti la possibilità di varcare porte di vita e non di morte. 
Con Pietro quindi siamo coinvolti anche tutti noi, chiesa di Gesù, perché, riconoscendo che Lui è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, diventiamo sempre più capaci di annunciarlo e farlo incontrare a ogni uomo e donna lungo il nostro cammino. Questa è la missione della chiesa e non altre: essere trasparenza di Dio e del suo mistero di amore e di misericordia che vuole offrire a tutti pienezza e solidità di vita.

sabato 19 agosto 2017

Ventesima domenica del Tempo ordinario



Il brano del Vangelo è un crescendo continuo; un dialogo intenso, coraggioso, che sfocia in quel “Donna, grande è la tua fede!”.
Fermiamoci innanzitutto a vedere dove e con chi avviene questo dialogo. Siamo si dice nella “zona di Tiro e Sidone”, cioè fuori dai confini della Palestina, in territorio straniero e qui Gesù entra in contatto e in dialogo con una donna, straniera appunto e pagana. Tre requisiti che a quel tempo indicavano questa persona come una persona da tenere ben lontana oltre che disprezzarla come “cagna”, perché così tutti pagani venivano chiamati… Eppure di questa donna straniera e pagana Gesù arriva a dire “grande è la tua fede!”. Provate a immaginare: come se il Papa si affaccia alla finestra di s.Pietro e dice “Ieri ho ricevuto in udienza una donna musulmana. Ebbene vi devo confessare che, tra i cattolici, una fede come la sua non l’ho mai trovata!”; Immaginate lo sconcerto.
Come è possibile? Come può esserci fede in una donna che è definita pagana? L’episodio ci sconcerta e mette in crisi le nostre certezze e sicurezze. Noi pensiamo infatti che una donna, un uomo di fede è colui che partecipa alle pratiche religiose, conosce la dottrina… Non c’è nulla di tutto questo nella dona cananea.
La fede che Gesù elogia allora è altro; non consiste tanto in cose da fare o da credere, ma nel suo stesso modo di essere, nel suo atteggiamento puramente umano ma aperto, coraggioso, insistente che mette in luce il cuore di questa donna; un cuore angosciato che non vuole arrendersi, non vuole rassegnarsi, che cerca, che ha fiducia, tanta fiducia da credere appunto che se un Dio c’è non può essere insensibile nei suoi confronti, che prenderà a cuore la sua sofferenza.
Questa la fede che Gesù elogia: questo grido di fiducia, questo abbandono a Lui con tutto il cuore.
La fede è dunque s-confinata! Non la possiamo chiudere dentro i nostri criteri e le nostre misure. La fede va oltre i confini, le barriere, le differenze che noi ci costruiamo, fino al punto che si può trovare più fede in chi noi riteniamo ‘lontano’. Perché Dio non ha misura: è misericordia smisurata – lo ricorda Paolo – e avvolge tutti con la sua misericordia, Israeliti o pagani, senza distinzioni; lui vuole “essere misericordioso verso tutti”.
Già il profeta Isaia proclamava questo amore s-confinato di Dio che accoglie tutti nella sua casa; per lui non esiste il termine ‘straniero’ perché ogni uomo e donna sono suoi figli amati.
Ma perché allora Gesù si è comportato con tanta freddezza e durezza verso quella donna, quasi rivendicando i privilegi del suo popolo? E’ l’obiezione che può nascere davanti alle risposte da Lui date. Comprendiamo tuttavia che questo suo modo di fare non esprime il suo modo di essere; si tratta piuttosto di un atteggiamento provocatorio, e non tanto verso la donna per spingerla ad essere insistente, quanto piuttosto verso la gente e i discepoli. Gesù dice a voce alta quello che la gente e i discepoli (a cui la donna dava fastidio per la sua insistenza) pensavano e così facendo scardina quella mentalità chiusa e educa, loro e noi oggi, a compiere questo passaggio, ad aprire occhi, mente e cuore per imparare a guardare agli altri senza etichette. Ci fa comprendere che occorre buttare alle spalle ogni pregiudizio, ogni etichetta se vogliamo arrivare a scoprire la grande fede che abita il cuore di tante donne e uomini di oggi, al di là del loro credo e della loro etnia. Togliere le distanze, guardare, ascoltare: a questo Gesù ci educa perché abbiamo a comprendere che davanti a Dio non c’è l’ebreo o lo straniero, il credente o il pagano. C’è un essere umano, un uomo, una donna; soprattutto c’è la sofferenza dell’altro. Quella sofferenza che tocca il suo cuore e lo apre alla richiesta di quella donna. Quella sofferenza che tutti ci deve interpellare e che viene prima di ogni religione e distinzione. E davanti alla sofferenza dell’altro non ci si può, non ci si deve chiudere. Quante mamme e donne, quanti popoli ancora oggi invocano, implorano le briciole, le briciole dell’amore, della solidarietà, della giustizia. Siamo tutti ‘cagnolini’ in cerca di briciole d’amore, siamo tutti suoi figli. 
Queste considerazioni allora devono alimentare in noi atteggiamenti diversi: dal non crederci migliori degli altri solo per il fatto di dirci cristiani, fino ad arrivare a uno sguardo nuovo sulle persone togliendo ogni maschera e pregiudizio. Come comunità e chiesa poi non ritenerci dei privilegiati, ma dei chiamati a portare a tutti, con parole e gesti, la bella notizia di un Dio che ama ogni uomo e donna così come sono. Arrivare allora a ripensare alla missione superando l’idea che “Noi siamo i vasi pieni, gli altri i vasi vuoti da riempire”, ma andando alla ricerca di ogni segno di quella fede grande che sta già dietro e dentro il cuore di tante persone. Solo così diventeremo quella “casa di preghiera e di incontro per tutti” come già annunciava il profeta nella 1 lettura. Quella famiglia che anticipa e inaugura quella umanità nuova dove, abbattuto ogni muro e barriera, tutti possiamo riconoscerci figli dell’unico Dio e insieme, nel rispetto di ogni diversità, lavoriamo per costruire una fraternità universale fondata sulla giustizia e la pace.

martedì 15 agosto 2017

Assunzione di Maria



Celebrare oggi la festa dell’Assunzione di Maria è accogliere un invito. L’invito a guardare in alto, a guardare oltre.
Fissando lo sguardo su Maria che viene ‘assunta in cielo’ ci interroghiamo sul senso della nostra vita, sul destino futuro, su dove stiamo andando, su cosa ci attende oltre questa vita terrena.
Il luogo in cui siamo ci aiuta in questa riflessione.
Guardando in alto lo sguardo è portato a gustare una luminosa bellezza che sta sopra e avanti a noi. Questa bellezza che noi chiamiamo ‘cielo’ si pone come meta e destino.
Una meta tuttavia che è frutto di un cammino fatto di salita, fatto di pause, di fatiche di attese, di desideri. Il viale che abbiamo percorso venendo qui ha questa funzione pedagogica: è simbologia della vita, non solo di Maria, ma anche nostra; una vita che si dispiega tra gioie e dolori, dalla nascita alla morte, ma che non si chiude nel buio di un sepolcro bensì è destinata al ‘cielo’, alla gloria, alla bellezza.
Arrivando qui dopo questo cammino siamo proprio invitati a gustare questo oltre che ci attende, guardando in alto e vedendo in Maria assunta e glorificata la meta e il destino di ciascuno di noi, della chiesa, dell’umanità tutta.
Ma la cosa ancor più bella e inaspettata è che in questo nostro guardare alto e lontano, vediamo che questa meta di glorificazione non è semplicemente qualcosa di spirituale, che riguarda solo la nostra anima, bensì è la glorificazione di tutto il nostro essere,  anima e corpo.
Tutto viene glorificato; nulla di quanto è umano si disperde e si annulla; ogni frammento di vita, vissuto nella gioia, nel dolore, vissuto con amore, troverà la sua pienezza, la sua definitiva glorificazione.
Questo perché il ‘cielo’ è sceso su questa ‘terra’: Dio si è fatto uomo e vive con noi. L’umano è casa del divino e il divino porta a glorificazione l’umano.
Forse questa parola ‘glorificazione’ ci suona strana, desueta. Cosa significa? La Parola di Dio parla spesso della ‘gloria’ di Dio, e il Figlio stesso Gesù dice che sarà glorificato. In queste parole altro non si vuol dire che essere resi partecipi  della vita stessa di Dio, dell’amore del Padre. La gloria di Dio è il Suo amore che tutto avvolge e a tutto da vita.
Essere glorificati è divenire partecipi in pienezza e per sempre di questo amore, di questa comunione di vita alla quale abbiamo accesso non per i nostri meriti, ma grazie alla Pasqua di Gesù, come ci ricorda la seconda lettura: attraverso la risurrezione di Gesù anche noi possiamo ricevere la vita. La vita dei risorti in Cristo: come Lui, risorto con tutto il suo essere, corpo e spirito, così sarà per noi. Maria, la Madre di Cristo, è segno e anticipo di quella vita piena che tutti potremo sperimentare.
E’ bello allora pensare che tutto ciò che siamo e facciamo tende alla glorificazione; questa nostra umanità è in cammino verso la pienezza dell’amore, e non può che essere così per il fatto che Dio è entrato in questa nostra umanità, l’ha assunta, redenta, glorificata con la sua risurrezione. Per questo tutto ciò che è amore verrà portato oltre; si perderà solo ciò che non è amore: le nostre meschinità, le cattiverie e gli egoismi, il male e ogni forma di ingiustizia… tutto questo è destinato a essere posto “sotto i suoi piedi” e “l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi”.
L’agire di Dio in Gesù è per la vita, è perché nulla vada perduto di quanto egli ci ha dato. In Maria nulla va perduto, tutto viene glorificato perché la sua vita è stata una vita di abbandono fiducioso all’amore di Dio, di accoglienza generosa della sua Parola, della Sua Presenza, di umile servizio di amore alla sua volontà così come lei stessa canta nel Magnificat.
Chi cammina così, come Maria, vive già ora con il ‘cielo nel cuore’ e suo destino e meta non potrà che essere il ‘cielo’, la vita stessa di Dio che già ora possiamo sperimentare qui in terra.
L’invito allora a guardare in alto che oggi ci è rivolto, diventa anche invito a vivere con speranza e fiducia questo pellegrinaggio terreno, a vivere dentro questa nostra storia mettendo sotto i nostri piedi il male, rispettando ogni creatura vivente destinata alla gloria: come Maria così ognuno di noi.
Viviamo operando giorno dopo giorno per far crescere ogni gesto, parola, pensiero di amore, perché solo questo resterà per sempre: solo quanto è frutto di amore troverà glorificazione e pienezza.

sabato 12 agosto 2017

Diciannovesima domenica del Tempo ordinario



Il vangelo di oggi è il racconto della nostra esperienza di vita.
La pagina, fortemente simbolica, descrive il viaggio della nostra vita. Quella barca siamo noi, ciascuno e tutti, in una traversata dove vento e onde, tempesta e buio sembrano voler sommergerci e annientarci.
Davanti al male, alla violenza, alle stragi; davanti a innocenti perseguitati, rapiti, uccisi; davanti a guerre che portano solo devastazione e morte non si può che rimanere storditi e confusi. Questa tempesta ha anche il nome di fallimento, di crisi, di malattia e dolore…
Quando sopraggiungono questi momenti ci sembra di affondare. Lentamente.
Quello che il vangelo descrive è quello che stiamo – consapevoli o meno – vivendo, tutti. E anche nostra è la paura raccontata in questa pagina: paura di essere travolti dal male, schiacciati da dalle cose che non vanno, sommersi dai problemi e dalle fatiche…
Le prove e la paura fanno parte della vita di ogni vivente.
Fu così per Elia che pieno di paura, subendo persecuzione per la sua fede in Dio, è costretto a fuggire sul monte. Fu così per Pietro e gli altri discepoli in quella notte sul mare, dove il desiderio e il tentativo di camminare sopra le onde del male non bastano a vincere la paura.
E’ così anche per tutti noi: la paura è spesso ospite indesiderata delle nostre giornate; padrona assoluta che condiziona le nostre scelte, il nostro stato d’animo, che paralizza la vita e ogni entusiasmo.
Quando la paura entra in casa, quando si manifesta nel nostro vivere di ogni giorno, che ne è della fede?
E’ la domanda che la Parola vuole oggi far emergere.
Che ne è della nostra fede quando le cose non vanno come dovrebbero, quando il male fa da padrone, quando Dio ci sembra lontano e ci sentiamo abbandonati a noi stessi?
Il più delle volte la nostra fede in quei momenti si riduce a nutrire aspettative sbagliate. Come Elia sul monte: cerca Dio e lo pensa Dio forte come il fuoco, il vento, il terremoto, un Dio che con forza lo libera dal male, dalla paura, dalle cose che non vanno, dai nemici… Ma Dio non è nel vento, nel terremoto, nel fuoco.  Dio non è nella violenza, né si manifesta con grandi prodigi, ma piuttosto è “sussurro di una brezza leggera”, “voce di silenzio” che si manifesta nell’intimo di ciascuno di noi. Così impara Elia. E la sua fede matura. E con questa Presenza interiore che lo abita, lo guida, lo accompagna, ritrova il coraggio per affrontare ogni paura.
I momenti di prova spesso purificano la nostra fede, rendendola più autentica a matura. Così avviene anche per i discepoli, sulla barca. Anche loro hanno aspettative sbagliate: si aspettano la soluzione ai loro problemi, alle loro paure, e invece capiscono che Dio è Colui che non toglie la prova, ma la condivide con noi, salendo sulla barca; condivide le nostre fatiche e ci porta una parola che ridona serenità e forza “Coraggio, sono io non abbiate paura!”.
Porsi, nell’ascolto, alla presenza di Dio, è il primo gradino per passare dalla paura alla fede.
Fede diventa così uno sguardo nuovo, un nuovo orientamento.
Fede è guardare negli occhi Gesù, quel Gesù che cammina sulle acque agitate a ricordare a tutti noi che Lui è più forte del male, di ogni male, ma che da esso ci libera non per incanto o magia, ma remando con noi, stando al nostro fianco proprio quando le forza del male sembrano prevalere.
Occorre guardare a Lui, fissare Lui negli occhi. Lo capisce benissimo Pietro che finché guarda a Gesù e gli va incontro riesce a far fronte alla turbolenza del mare; ma quando il suo sguardo si allontana da Gesù ritorna ad affondare “vedendo – guardando – il vento che era forte si impaurì”. Quando lo sguardo non è più rivolto a Lui, ma torna a fissarsi sul negativo che ci circonda, sul male che è attorno a noi, la paura torna a prendere possesso della nostra vita.
Solo allora il grido della preghiera può di nuovo ri-orientare il nostro sguardo a Colui che può salvarci: “Signore salvami!” E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede perché hai dubitato?”. 
Noi uomini e donne di poca fede, che facciamo fatica a guardare negli occhi Gesù, ad avere Lui come unico riferimento nel cammino della vita, ci uniamo a Pietro e a tutti coloro che sono provati da fatica, persecuzione, violenza per gridare insieme: “Signore salvaci”. Lo facciamo con la certezza che Lui tende la mano ci afferra e ci assicura che la Sua presenza non viene mai meno. Presenza di “voce di silenzio”, presenza interiore che dà pace e forza, luce che illumina ogni tenebra. Presenza che solo nel silenzio, nella preghiera, nell’ascolto della Parola, possiamo percepire, scoprire e rafforzare in noi. Questa Presenza tiene viva in noi la speranza che c’è sempre un “finire della notte”, un nuovo inizio che si apre a quanti, pur avvolti da prove e fatiche, non si lasciano vincere dalla paura, ma sanno tenere fisso lo sguardo a Colui che non è affatto un fantasma, ma l’amico, il compagno di viaggio che con la Sua Parola ci ripete ancora oggi: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”.