sabato 30 settembre 2023

XXVI domenica del tempo ordinario

 

Ritorna nel vangelo di oggi l’immagine della vigna. E anche l’immagine di un uomo (padre) che chiama i suoi figli a lavorare in essa. Richiama il brano di domenica scorsa. Tuttavia ora l’attenzione della parabola è rivolta, ai due figli. Quello che dice No “ma poi si pentì e vi andò”. Quello che dice Sì “ma non vi andò”.

Gesù voleva evidenziare la contrapposizione tra “i i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo” con “i pubblicani e le prostitute”. I primi figurano come quelli del Sì, coloro che si ritengono fedeli interpreti della legge e delle tradizioni ma poi di fatto non fanno quanto dicono. I secondi invece, quelli che dicono No, sono in apparenza i lontani, gli infedeli, i peccatori, “pubblicani e prostitute”, ma che di fatto, davanti alla predicazione di Gesù, sono i primi a convertirsi e a collaborare con lui per la crescita della vigna.

Cosa dice a noi questa parabola oggi? Colgo alcuni spunti.

Innanzitutto veniamo messi in guardia dal rischio sempre presente del Sì detto ma poi smentito. Quante volte anche nella quotidianità della vita facciamo esperienza di come  venga facile dire dei Sì ma poi non fare quanto detto! E’ il rischio del dirsi cristiani, sì certo, ma poi vivere di fatto come chi non lo è. Già diceva sant’Ignazio di Antiochia: ”E’ meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo!”.

Un altro aspetto che viene messo in luce, confermato anche dalle parole del profeta nella prima lettura, è la reale possibilità di saper riscattare i nostri No, la possibilità cioè del cambiamento, della conversione. Ogni qualvolta ci accorgiamo di camminare su strade sbagliate e contradditorie, possiamo, cambiare. “Si pentì e ci andò”. “Se si converte dalla sua malvagità e compie ciò che è retto e giusto egli fa vivere sé stesso, ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà”. Si può sempre ricominciare, ritornare, rimettersi in cammino. Questo è il consolante messaggio che ci raggiunge e che mette però in gioco la nostra responsabilità e libertà nelle scelte che siamo chiamati a compiere.

C’è poi un’altra interessante prospettiva: quella del “non ho voglia”. In fondo nessuno dei due figli ha voglia di andare nella vigna a lavorare. Preferiscono entrambi fare altro. E’ la sottile tentazione anche per noi. Fare solo ciò che piace: ma così non si va molto lontano. Cosa accadrebbe se lavoro solo quando ciò voglia, studio quando ciò voglia, curo e seguo i figli solo quando ciò voglia? Per conseguire risultati, lo sappiamo, occorre andare contro le proprie voglie. Nella parabola i figli non hanno voglia di obbedire al padre: preferiscono obbedire al proprio interesse. Obbedire al padre è fare la sua volontà. “Non la mia ma la tua volontà sia fatta” dirà il figlio di Dio Gesù. “Chi dei due ha fatto la volontà del Padre?”. Il figlio che è uscito dalla sua volontà, dai suoi progetti per fare quella del Padre. “Si pentì”: la conversione sta proprio nel non fare ciò che voglio ma ciò che Lui vuole. E’ il rinnegare se stessi per obbedire a Dio, al Padre che vuole il nostro vero bene chiamandoci a collaborare per la sua vigna.

Ecco allora un ultimo particolare: è l’immagine della vigna. Lavorare per essa è ciò che vuole il Padre. La vigna non è solo figura della chiesa bensì dell’umanità intera nella quale Dio chiama tutti i suoi figli a collaborare alla sua crescita e realizzazione. Siamo agli inizi del mese missionario e alla vigilia del Sinodo dei vescovi. Urge quindi una verifica personale: io sto facendo la mia parte? Mi prendo a cuore le sorti dell’umanità a partire da chi ho accanto a me, dalla mia famiglia, dalla mia parrocchia e paese, dal creato che mi circonda, dall’attenzione alla vita soprattutto dei più deboli e indifesi?

Prendersi cura, ci suggerisce Paolo nella seconda lettura vuol dire coltivare “un medesimo sentire e con la stessa carità rimanere unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso. Ciascuno non cerchi il proprio interesse ma anche quello degli altri”. Tutto questo - ci dice ancora - con lo stile di Gesù: “abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”, lui che si è fatto servo e ha offerto la sua vita quale dono d’amore, fino alla morte.

In questo modo anche noi, seguendo Gesù, il figlio che “non fu sì e no, ma in lui vi fu il sì “(2Cor.19), possiamo essere veramente cristiani, figli amati del Padre, collaboratori nella sua vigna, costruttori nei fatti del suo Regno dentro la storia.

 

sabato 23 settembre 2023

XXV domenica del tempo ordinario

 

“I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” dice Dio attraverso il profeta nella prima lettura.

E oggi il vangelo ci chiama proprio a mettere da parte i nostri schemi, le nostre idee, i nostri modi molto umani di pensare, per fare spazio alla novità sorprendente che viene annunciata.

Una parabola da leggere come tale e quindi come annuncio nascosto e sorprendente di un di più che non sempre riusciamo a cogliere.

Dietro all’immagine del padrone emerge pian piano il volto del padre, il volto di Dio. Di un Dio che porta tutti, primi e ultimi nel suo cuore. E proprio a tutti vuole partecipare il suo amore, la sua generosità e bontà. Davanti a Lui non reggono le regole del merito, del profitto, e nemmeno l’arrivare prima degli altri. C’è solo una regola: nessuno escluso dalla vigna, nessuno lasciato ai margini, tutti considerati figli amati e abbracciati, a ogni ora, dal suo amore di Padre.

Questo può sorprenderci perché noi siamo così abituati a guardare alla resa, all’impegno, a ciò che uno fa, a volte accecati dall’invidia (“tu sei invidioso perché io sono buono?”), al punto da stilare una classifica di giudizi, di ricompense, di aspettative; come i lavoratori della prima ora. Ma diverso l’agire di Dio, i suoi pensieri.

E questa parola risuona oggi in questa giornata mondiale dei migranti, ed è proprio in questo contesto che possiamo accoglierla. Nessuno escluso, tutti chiamati a far parte di un’unica vigna-umanità. Questo Dio vuole.

C’è innanzitutto in questa pagina una forte provocazione a una visione di Dio ben diversa da quella che a volte abbiamo. Occorre allora che facciamo nostro il suo pensiero, applicando oggi uno stile nuovo di relazioni; solo così possiamo stare dalla sua parte e… difendere Dio se ce ne fosse bisogno!

C’è poi una seconda provocazione a un modo alternativo di impostare la società stessa, l’economia, il lavoro. Non nella prospettiva del merito, del profitto, bensì in quella della condivisione, della compartecipazione di tutti, anche degli ultimi, degli stranieri, al futuro del mondo. E questo chiede allora pensieri diversi da quelli della difesa, della chiusura, della paura. Chiede il pensiero di Dio che non vuole che alcuno resti escluso, nessuno sia lasciato senza far niente, senza il diritto a vivere con dignità. A Dio interessa la persona, prima ancora della sua vigna, del successo del raccolto. È un padrone che non pensa al proprio guadagno, ma pensa prima di tutto agli operai: non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso. La giustizia umana si limita a dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Il suo desiderio è che ciascuno si senta realizzato, valorizzato, che ciascuno trovi un modo per essere utile nella sua vigna, quella vigna che è molto simile al mondo dentro il quale ci ritroviamo e nel quale siamo chiamati a dare il nostro contributo.

Davanti agli enormi problemi di oggi, alla questione sempre più grave delle migrazioni causate da guerre, violenze, fame e malattie, cambiamenti climatici che riducono a deserto immensi territori, oggi dobbiamo guardare a queste persone come a fratelli e sorelle a cui ridare dignità, speranza, futuro, vita. Come fa il padrone della vigna verso quelli dell’ultima ora. Dobbiamo tornare a mettere al primo posto la persona, ogni persona per garantire a tutti dignità, libertà (anche di muoversi o di rimanere) e una vita serena nella pace. 

“Amici, davanti a noi si pone un bivio: da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’altra l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può. Noi credenti, dunque, dobbiamo essere esemplari nell’accoglienza reciproca e fraterna.” (Papa Francesco venerdì a Marsiglia)

Anche noi allora, senza esitare, come ci ha detto Paolo nella seconda lettura: “Comportiamoci dunque in modo degno del vangelo di Cristo.”

 

sabato 16 settembre 2023

XXIV domenica del tempo ordinario

 

Le domande di Pietro - quante volte perdonare? fino a quanto? - sono un po’ anche le nostre, perché alla fine un limite ci deve pur essere…

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette»: è la risposta che spiazza Pietro e i nostri calcoli. L'unica misura del perdono – ci dice Gesù - è perdonare senza misura, generosamente, gratuitamente, sempre. È questione di qualità più che di quantità.

Ma perché devo perdonare? Perché devo rimettere un debito e dunque rimetterci? Perché cancellare l'offesa ricevuta da mio fratello? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.

Il motivo per cui siamo chiamati a vivere il perdono tra noi non sta in una legge, in un obbligo, ma solo nel modo di agire di Dio.

“Ricordati” ammonisce il Siracide nella prima lettura. “Ricordati della fine e smetti di odiare”; “Ricordati dell’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. Ricordati cioè dell’amore del Signore per te e quindi “non odiare il tuo prossimo”.

Paolo nella seconda lettura, aggiunge: “nessuno di noi vive per sé stesso… se noi viviamo, viviamo per il Signore”. È proprio questo ‘riferimento primo’ al Signore che deve plasmare il nostro modo di vivere, di stare con gli altri, e dunque di saper perdonare gli altri. Così come il Signore, in cui viviamo, da cui siamo amati senza misura e limite, allo stesso modo dobbiamo agire verso gli altri.

Gesù lo dice con la parabola dei due debitori.

Il primo doveva una cifra enorme al suo signore, qualcosa come il bilancio di uno stato: un debito insolvibile.

«Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava...» e il re provò compassione. Ecco il volto splendido e nuovo di Dio: modello della compassione; sente come suo il dolore del servo, prende a cuore la sua situazione, si commuove e ascolta il suo grido - il nostro grido - e il debito viene totalmente estinto.

Non è tanto un dimenticare, ma un guardare oltre, dare nuove opportunità e questo a motivo della compassione che abita il cuore del re e lo spinge a usare questa più che il diritto e la legge.

Il perdono non è dimenticare, ma trasformare: usare quella compassione che trasforma l’altro rendendolo capace di un nuovo inizio.

Il servo perdonato, «appena uscito», trovò un servo come lui che gli doveva qualche denaro. Subito vorremmo vedere questo nuovo inizio; ci aspetteremmo un sorriso, la gioia e di conseguenza la stessa compassione, ricevuta e ora donata.

«Appena uscito»: non il giorno dopo, non un'ora dopo. «Appena uscito», appena dopo aver fatto l'esperienza del perdono, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: "Ridammi i miei centesimi"», lui perdonato di miliardi!

In fondo, era suo diritto: lui è giusto e spietato.

L'insegnamento della parabola è chiaro: rivendicare i miei diritti non basta per essere secondo il vangelo, per vivere come figlio di Dio. La giustizia non basta per fare l'uomo nuovo. «Occhio per occhio, dente per dente», debito per debito: è la linea della giustizia. Dio invece ci chiede di seguire la via della compassione che diventa misericordia, perdono.

«Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa.

Chiamati dunque a perdonare: non si tratta di un di più, ma di una scelta che ci qualifica come discepoli, come cristiani.

Cammino faticoso, lento, ma cammino da compiere se vogliamo “vivere per il Signore” e così costruire e anticipare il suo Regno: “Il regno dei cieli è simile a un re” “buono e grande nell’amore” (Salmo).

Siamo chiamati a diventare, a piccoli passi, con pazienza, pur con tanta fatica, profezia di questo nuovo modo di agire e vivere, imparando l’arte e il coraggio del perdono. Perdonare non è debolezza, ma atto di grande coraggio; non è rinuncia, ma scelta di amare alla massima potenza; di amare come Dio. Il perdono altro non è che il vertice dell’amore, il modo più alto di amare. Solo Dio ne è veramente capace. Noi, che in lui viviamo, siamo tuttavia chiamati a camminare verso una sempre più crescente capacità di amare perdonando come Lui ci ama.