sabato 4 novembre 2017

Trentunesima domenica del Tempo ordinario



Oggi i primi a confrontarsi con queste pagine della Parola di Dio siamo noi preti. Il profeta nella prima lettura si rivolgeva contro i sacerdoti del Tempio e Gesù nel vangelo, parlando alle folle e ai discepoli, mette in guardia proprio da coloro che erano allora le guide religiose.
Dicono e non fanno”. Ad essere sincero, mi ci ritrovo. Dico e non faccio. C’è distanza tra la Parola che proclamo e la mia vita. Abituato a parlare dalla dal pulpito, dico tante cose giuste e belle, ma poi non sempre le faccio, le vivo.
E’ un vangelo oggi che ci mette alle strette. E’ un esame di coscienza a cui siamo chiamati: preti, ma anche tutti noi “folla e discepoli” verso i quali la parola di oggi è rivolta.
E’ pur vero, come ricorda Paolo nella seconda lettura che “la Parola opera in voi che credete”: cioè agisce, scava dentro ciascuno, illumina, nonostante coloro che l’annunciano poi non la vivono; “Fate quello che vi dicono – perché viene da Dio – non fate quello che fanno – perché viene solo da loro”.
A volte si sente gente scusarsi dicendo: ‘ma non lo fanno nemmeno loro quello che dicono’ (riferendosi sia a preti e anche a politici…).
Questo tuttavia non deve impedirci di accogliere la Parola e di viverla noi, al di là di quello che altri fanno. “Ricevendo la Parola di Dio l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come Parola di Dio” dice Paolo, e di questo dobbiamo essere tutti capaci; senza fermarci a chi la proclama e che, per la fragilità umana, non sempre è in grado di viverla fino in fondo.
Dobbiamo pur riconoscere che nessuno è esente dall’incoerenza tra il dire e il fare. L’incoerenza fa quasi parte del nostro essere fragili e deboli creature. E Gesù questo lo sa. E non contro questa debolezza lui si scaglia. Non contro l’incoerenza, ma contro l’ipocrisia, Gesù se la prende. Noi non saremo giudicati sull’aver raggiunto o no l’ideale, la perfezione (perché nessuno può essere perfetto se non Dio solo); verremo invece giudicati se verso l’ideale che la Parola ci propone, avremo camminato con sincerità, con l’infinita pazienza di saper ricominciare sempre da capo. La severità di Gesù colpisce l’ipocrisia, non la debolezza. E gli ipocriti chi sono? Coloro che invece di riconoscere la loro debolezza e rimettersi sempre in cammino con cuore umile e pentito, credono invece di essere nel giusto, solo perché dicono cose giuste. Sono i moralisti che rendono la legge più dura per gli altri. Sono quanti, chiusi in schemi rigidi, non camminano più, e tutto e tutti misurano dentro i loro schemi.
E Gesù, nel brano di oggi mette in guardia proprio verso questi atteggiamenti negativi, che anche noi suoi discepoli corriamo il rischio di assumere: l’ipocrisia, la vanità “tutto fanno per essere ammirati”; il gusto del potere, di farsi chiamare ‘maestri’. Atteggiamenti su cui fare ogni giorno, tutti, un buon esame di coscienza.
La cosa più importante tuttavia è che Gesù, mettendo in guardia da questi pericoli, offre a chi vuole essere suo discepolo alcune semplici indicazioni per una vita piena e autentica. Eccole: “Il più grande è colui che serve”. “Non fatevi chiamare maestri… uno solo è il vostro maestro, voi siete tutti fratelli”. L’agire nascosto invece dell’apparire; la semplicità invece della vanità; il servizio invece del potere. Sono lo Statuto della nuova comunità. Uno solo Maestro, Padre, Guida: il Dio che in Cristo si è fatto servo di tutti noi, per renderci figli amati e fratelli. Ecco la vera gerarchia, se proprio deve essercene una: Dio in basso, ai piedi, servo, e in Lui noi tutti fratelli.
Dentro questi atteggiamenti è chiamata a muoversi e crescere la nostra vita personale e la vita delle nostre comunità, della chiesa tutta.
Quanta strada da fare ancora! Un cammino di conversione si pone come urgente per tutti. Davanti alle fatiche dell’oggi, come chiesa e come cristiani dentro la società, occorre ritrovare il coraggio per chiederci con quale stile stiamo vivendo la nostra fede.
 “Se non mi ascolterete manderò su di voi la maledizione”, ammoniva con forza il profeta Malachia. Ma la maledizione, di fatto, viene, non da Dio, ma da noi stessi; dalle nostre scelte, dal nostro non ascoltare la Parola. Vivendo lontano da Lui e diversamente dal suo Vangelo non facciamo altro che aprire la strada a situazioni di fallimento: lo svuotamento delle nostre chiese, il calo delle vocazioni, la frantumazione di un tessuto famigliare e sociale, l’inaridimento delle nostre comunità… Non sono forse il frutto delle nostre scelte, del nostro stile di vita cristiano, o meglio poco cristiano perché fatto più di apparenza che di sostanza?
Occorre tornare ad ascoltare il Signore. Ad ascoltare la sua voce. Voce che non vuole maledire, bensì guidarci a una vita benedetta, piena autentica. Solo se lo si ascolta e si cerca, pur con tutte le nostre debolezze e fragilità, di vivere secondo la sua Parola, potranno aprirsi orizzonti di speranza e di novità.
Facciamoci l’esame di coscienza che Gesù ci suggerisce, ma soprattutto riprendiamo il nostro cammino assumendo come criterio di vita e stile di relazioni quella semplicità, umiltà e capacità di servizio che Gesù ci propone come carta di identità del nostro essere suoi discepoli e sua chiesa.

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