venerdì 31 ottobre 2025

"La goccia e il torrente" - Festa di Ognissanti, oltre l’abitudine

 

Riflessione di MAURIZIO PATRICIELLO dal quotidiano “Avvenire” del 30.10.2025

Péguy: « E quando si dice che la Chiesa ha ricevuto promesse eterne, che si possono radunare in una promessa eterna, bisogna quindi rigorosamente intendere che non soccomberà mai sotto il suo invecchiamento, sotto il suo indurimento, sotto il suo irrigidimento, sotto la sua abitudine e sotto la sua memoria… e che i santi rifioriranno sempre». Anche oggi, anche domani, anche con l’avvento dell’Intelligenza artificiale e delle mille astruserie che ai vecchi ancorati alle loro abitudini, fanno paura. Santità non è sacrificio, penitenza, perfezione. O, almeno, non solo questo. Santità è relazione. Il frammento si rispecchia nel Tutto e dal Tutto si sente attratta e annichilita. La goccia cerca il torrente senza il quale sente di evaporare. La santità è gioco. Giocare con Dio. Tentare di capire, di arrivare al fulcro, al centro, al cuore di questo Mistero che affascina e spaventa. Dio è amore. Il santo ama. Chi? Tutti. Anche gli antipatici? Anche quelli. Ma gli altri sono cattivi. Vanno aiutati a esserlo di meno. Lui, il tuo Dio, li ama. E ti chiede di fare altrettanto. Ce la sussurriamo la verità in questa giornata dedicata a loro, ai santi? Giudicare è più facile che amare. Ti mette sul piedistallo e ti fa guardare dall’alto coloro che Dio ha voluto guardare negli occhi. Selezionare, incasellare, etichettare, litigare, condannare: tutto questo ci mette al riparo dalla fatica di dover amare. Attenzione ai paraventi. Chi ama ha vinto la paura – ogni paura – perché si fida. Il coraggio dei santi affonda qua le sue radici. Si fida. E ritorna bambino. Capace di meraviglia e di stupore, bisognoso si dialogo e carezze. Si guarda attorno e “vede”, finalmente “vede”. Vede il sole e le castagne; i crisantemi e i campanili; il piccolo appena nato e l’altro che viene gettato nella fogna. Vede l’acqua del fiume inquinato e quella del battesimo. “Vede” il Pane che diventa Dio e Dio che si fa pane da mangiare. Una magia? No, un gioco. Perché un padre ama giocare con i suoi bambini. E gli uomini, che fin troppo si prendono sul serio, devono imparare a giocare per diventare veramente uomini. E i peccati? Dove li mettiamo i peccati? Dove li ha relegati Iddio. Gli antichi monasteri vuoti non sono un fallimento, ma testimonianza di fede di fratelli e sorelle che hanno amato Dio e gli uomini in quel luogo, in quel tempo. State sereni, nulla è andato perduto. Ogni secolo ha avuto i suoi santi. Ma guai ad abituarsi troppo. Guai a trasformare i santi in “santini”. Faremmo un torto allo Spirito Santo che è perenne novità; a Dio che ci spiazza sempre.

Per dodici secoli la Chiesa e il mondo hanno fatto a meno di Francesco di Assisi. Fino a quando non arrivò questo giovane, originale, un po’ folle, un po’ strano, incompreso dai religiosi del tempo. S’innamorò. Di chi? Del lebbroso? Della foresta? Del canto degli uccelli? No, si innamorò di Cristo. Voleva lui, cercava lui, voleva giocare con lui, rimanere con lui. Un solo pensiero lo tormentava: offenderlo, pur senza volerlo. E ripercorse le antiche vie già tracciate dalla Chiesa e ne scoprì altre. Chi ama teme di fare del male alla persona amata, ed ecco l’assisano farsi severo con sé stesso e gli altri. Forse troppo. E se – il solo pensiero mi fa male – e se dicevo, per il futuro nessun giovane sentisse il fascino di indossare il saio? Per quindici secoli la Chiesa e il mondo non hanno saputo chi fosse Ignazio di Loyola e i gesuiti. E così via. Come sono diversi tra loro, i santi. Al punto che – poverini – qualche volta si sono guardati in cagnesco. La santità si declina in mille, diecimila, centomila modi. Perché ovunque volgi lo sguardo, Dio ti ammalia. Fino a oggi ne abbiamo appena sfiorati alcuni, il bello non è ancora arrivato. Non è facile rimanere sereni mentre il mondo cambia. Guardiamoci indietro. Ripercorriamo a ritroso la nostra storia. Che hanno in comune l’adolescente Carlo Acutis e il martire Ignazio di Antiochia? E i piccoli portoghesi, Francesco e Giacinta Marto, che ci fanno accanto a Tommaso d’Aquino e ad Agostino? Questa santità – perenne novità - mi attrae. Mi incanta la fantasia di Dio. Spalanco gli occhi: un bimbetto che sgambetta appena ha raccolto nel prato un minuscolo fiorellino giallo e lo ha regalato al suo papà milionario.

Mi fermo, li scruto. Voglio imparare. Osservo la gioia del piccolo che ha donato tutto ciò che aveva di più bello, ma, soprattutto, quella del babbo che stringe al cuore il suo bambino, il bene più prezioso. I santi rifioriranno sempre. Anche oggi. Anche in mezzo a noi. E – perché no? – anche noi stessi possiamo fiorire in questo giardino dai mille fiori e mille profumi. Fiducia. Umiltà. Tanta, tanta, tanta umiltà. Amore. Oggi abbiamo una sola cosa da fare: amare. Cominciamo subito, senza preamboli, senza opporre resistenza, senza cercare appigli per sfuggire all’unico nostro dovere. Senza distinzioni, senza preclusioni. Noi non possiamo non amare coloro che Dio stesso ama. E se Dio ha tanta pazienza da rispettare i tempi dei “peccatori”, i loro ritardi, le loro giustificazioni, le loro bugie, le loro cadute, chiede a noi, peccatori perdonati, di imitarlo. “Ama e fa quello che vuoi”. Ho capito, Signore. Sono pronto. Mettiamoci in cammino. Soli Deo gloria.

Maurizio Patriciello

 


sabato 25 ottobre 2025

"Il SIgnore è vicino a chi ha il cuore spezzato" - XXX domenica del tempo ordinario

 

Non è solo questione di preghiera, di modi di pregare, ma è questione di vita, di modi di vivere.

Questa parabola ‘fotografa’ il nostro modo di essere, di vivere, e di conseguenza di pregare, di credere.

Il racconto vuole sottolineare innanzitutto il modo di mettersi in relazione con sé stessi e con gli altri. “Disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti (relazione con sé) e disprezzavano gli altri (relazione con gli altri). Di conseguenza diverso è il rapporto che viene a stabilirsi con Dio.

I protagonisti sono due: il fariseo (il bravo osservante della Legge, scrupoloso nel seguire le regole e le tradizioni) e il pubblicano (colui riconosciuto pubblicamente come peccatore).

L’episodio si svolge nel Tempio, cioè nel contesto della preghiera. Ed è proprio la preghiera che manifesta chi sono questi due protagonisti.

Il fariseo pregando si presenta come un buon osservante di ogni legge e precetto, facendo da parte sua anche più di quanto viene comandato. Il suo atteggiamento esteriore (in piedi) e le sue parole dicono di uno che si ritiene giusto e corretto. Dice il vero: egli veramente fa quello tutto questo, lo pratica fino in fondo.

Anche il pubblicano esprime con il suo atteggiamento esteriore e con le sue parole la condizione in cui si trova, riconoscendosi povero, incapace di cambiare vita, peccatore.

Nessuno dei due dunque imbroglia e dice il falso. Tuttavia la conclusione di Gesù è sconcertante: “questi (il pubblicano), a differenza dell’altro (fariseo), tornò a casa sua giustificato…”, cioè riconosciuto giusto, perdonato. Perché, se tutti e due sono stati onesti e sinceri?

La risposta è nel modo di essere e di stare con gli altri e che viene sintetizzato nelle parole di Gesù “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

La preghiera del fariseo rivela un modo di essere tutto centrato su sé stesso, sul proprio io. Più che pregare Dio mette davanti a Lui, il suo io; io faccio, io sono, io sì che valgo… E da qui affiora subito il suo modo di stare con gli altri: con presunzione e arroganza, giudicando e disprezzando: io “non sono come gli altri…ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano”. Questo modo di essere e di trattare gli altri condiziona anche il suo rapporto con Dio pensato come un controllore, un giudice che premia per i risultati ottenuti, per le cose fatte, per i meriti acquisiti…

Nel pubblicano emerge invece un altro modo di essere che si traduce in differente relazione con gli altri e con Dio stesso. Quest’uomo non fa’ l’elogio di sé stesso, del suo io, anzi si riconosce ‘nulla’, povero peccatore, e si mette con fede nuda davanti al Tu, a Dio invocandolo, supplicandolo e confidando nella sua misericordia; riconoscendolo, più che giudice, padre. E’ consapevole di se stesso: “abbi pietà di me peccatore”. Da questa consapevolezza deriva un non guardare e non giudicare nessuno: “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. E deriva questa corretta relazione con Dio, invocato come Colui che solo può usare misericordia, risollevare, sanare, salvare. Quasi a dire: non ho alcun merito ma confido in Te.

Due modi di essere, di relazionarsi con gli altri, di credere. E’ su ciò che siamo invitati a confrontarci e verificarci.

Forse dobbiamo un po’ tutti imparare a essere meno presuntuosi, meno giudici spietati verso gli altri, più capaci di aprirci con fiducia e umiltà a Colui che solo giudica, ma soprattutto ama, perdona, rinnova.

Questo è il volto di Dio: un Padre che non guarda i meriti delle persone (1 lett. “non fa preferenze…”). Il Signore non è un contabile di opere pie e buone che possiamo accumulare, ma Padre che con gratuità e bontà si prende cura di chi si rivolge a Lui con cuore umile, consapevole del proprio limite. Egli si attende che noi ci poniamo nei suoi confronti come figli, pronti ad accoglierlo e a lasciarci da lui amare.

Da questo corretto sguardo su Dio nasce anche uno sguardo nuovo su noi stessi e sugli altri. Impariamo a riconoscerci “figli amati”, nonostante la nostra fragilità. Impariamo a guardare altri come fratelli e sorelle; pronti a usare misericordia, comprensione, a sostenerci e incoraggiarci insieme lungo il cammino.


sabato 18 ottobre 2025

"Missionari di speranza tra le genti" - XXIX domenica del tempo ordinario

 

Perseverare: è il ritornello che torna nelle letture di oggi:

-      Nella 1° l. Mosè sta ritto sul monte durante la lotta

-      Nella 2° l. Paolo invita: “rimani saldo” nella Parola e annuncia in ogni momento (ascolto e missione)

-      Nel vangelo Gesù chiede di “pregare sempre senza stancarsi mai”

Nella lotta, nell’ascolto e nella missione, nella preghiera ci è chiesto di perseverare, anche se non vediamo risultati e Dio possa sembrarci lontano e sordo al nostro grido.

Riconosciamolo senza timore: facciamo fatica in questo perseverare. Un po’ in tutti i campi della vita e come cristiani nel vivere la nostra fede: abbassiamo in fretta le mani davanti ai problemi, le lotte, le sfide che la vita ci presenta. Non stiamo saldi nella Parola (ci accostiamo in modo occasionale se non solo domenicale…) e non abbiamo di conseguenza nulla o poco da dire, da annunciare; si spegne dunque la spinta missionaria. E poi pregare sempre... sembra utopia; si prega, ma quando capita, quando ne abbiamo voglia, tempo, bisogno…

Lecita allora la domanda finale di Gesù: troverò ancora fede? troverò uomini e donne che saranno perseveranti nel seguirmi con fiducia e passione?

Perché alla fine è la fede che si spegne se viene meno la perseveranza. Ad esempio: se un atleta, un artista si allenassero solo occasionalmente… quali risultati? Solo la perseveranza quotidiana rende capaci di ottenere grandi risultati in ogni campo; senza c’è solo il fallimento.

Noi in cosa siamo perseveranti?

Oggi la Giornata Missionaria mondiale si pone come occasione propizia per rafforzare la nostra perseveranza da una parte sostenuti dall’esempio di tanti testimoni missionari che affrontano in diverse parti del mondo le situazioni più difficili; dall’altra ripensando alla nostra vocazione battesimale e quindi alla missione che ne consegue di essere testimoni e costruttori del regno di Dio.

Dal battesimo infatti siamo figli di Dio chiamati a vivere come tali perseverando nel seguire Gesù, nelle lotte e sfide, nell’ascolto della Parola e nella preghiera.

Potremmo così dire che come figli siamo preghiera e siamo missione. Siamo preghiera perché essa non è questione di formule da recitare, ma di relazione d’amore da tener viva, di respiro dell’anima che ci unisce a Dio e all’umanità facendoci così anche voce delle tante ‘povere vedove’ che gridano chiedendo giustizia, dei piccoli e degli oppressi, di una umanità in cerca di speranza. Siamo nello stesso tempo missione perché la bellezza e la gioia di essere figli di Dio va comunicata e testimoniata a tutti; perché tutti possano scoprirsi figli amati di un Padre, fratelli chiamati a dare vita a una nuova umanità dove il vangelo di Gesù trovi accoglienza e realizzazione.

Siamo figli di Dio chiamati a vivere e portare a tutti la bella notizia del suo amore. E solo la capacità di perseverare in questo amore pur in mezzo alle fatiche, alimentandolo nell’ascolto della Parola e nel respiro calmo e profondo della preghiera ci renderà non solo credenti ma soprattutto credibili.

Uomini e donne che sapranno tener vivo nel tempo il fuoco della fede fino al giorno del Suo ritorno e tenere accesa la speranza in mezzo a questa nostra umanità vivendo quali “Missionari di speranza tra le genti”, così come il messaggio per questa giornata ci suggerisce, a iniziare proprio lì dove ogni giorno scorre la nostra vita.