sabato 26 aprile 2025

"Pace a voi" - Seconda domenica di Pasqua, in albis e della DIvina Misericordia

 

Cosa fanno i discepoli dopo la Pasqua? Fanno comunità. Prende lentamente corpo la chiesa.  

Nel vangelo questa comunità appare inizialmente chiusa (erano chiuse le porte), piena di paura, che fa fatica a credere, frammentata (manca Tommaso).

Negli Atti degli Apostoli (1 lettura) ritroviamo gli stessi discepoli a formare una comunità invece unita e aperta (stavano insieme nel portico), in crescita (venivano aggiunti credenti), testimoniante con le opere l’amore e la presenza di Gesù che opera con loro al punto che “tutti venivano guariti”: non c’è ferita, paura, timore che non possa essere sanato dall’amore misericordioso di Dio operante in Gesù.

Si è compiuto un passaggio, una ‘pasqua’, che li ha radicalmente cambiati. E’ il passaggio di Gesù in mezzo a loro. “Venne Gesù, stette in mezzo”. Lui al centro e tutto cambia.

Lui che entra nonostante le porte chiuse, le paure e i dubbi. Viene per andare in cerca di chi è smarrito e fa fatica, di chi è ferito e deluso. Entra lo stesso e dona pace.

Così è stato per i discepoli: “Pace a voi. Come il Padre ha mandato me così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo” Dove c’è Gesù e lo si pone ‘in mezzo’, al centro, fiorisce innanzitutto la pace. Quando Gesù entra nella tua vita, entra in te la sua Parola, senti la pace. Quella pace che vince la paura, la rabbia. Quella pace che è Presenza che ci invade facendoci sperimentare la riconciliazione, l’armonia, la gioia. Con Lui allora si cresce nella fede, aiutandosi insieme, affrontando i nostri dubbi e le nostre fatiche (come è stato per Tommaso) fino a riconoscere che Lui è il “mio Signore e mio Dio”. Credere diventa allora accogliere la Sua Presenza in noi, fare nostre le sue ferite e le ferite di ogni fratello e sorella; fare nostro il suo Soffio, il Suo Spirito che spira parole e gesti di perdono e di misericordia: “Soffiò e disse… ricevete, perdonate”, perché non può esserci pace senza perdono, senza misericordia.

Con Lui la comunità si trasforma e da chiusa si fa aperta; e da timorosa diventa capace di testimonianza; e da ferita e debole si rende strumento di guarigione, annunciando e operando la misericordia ricevuta in dono.

Anche noi oggi abbiamo bisogno, continuamente, di vivere il passaggio di Gesù tra noi, di lasciare che Lui possa entrare nelle nostre comunità e stare in mezzo, al centro.

Un passaggio che continua sempre. Lo ricorda la Parola ascoltata: “nel giorno del Signore”, “otto giorni dopo”, ogni domenica questo passaggio si rinnova. Ogni domenica la comunità è chiamata, pur con i suoi dubbi, le sue fatiche a credere, ad esserci. Tutti insieme; anche con Tommaso, anche con chi si è allontanato, con chi più di altri fa fatica.

Perché è lì nella comunità che ogni domenica Lui viene, sta in mezzo, dona la pace, rafforza la fede, rinnova il soffio delle Spirito, ci investe della sua misericordia e rinnova l’invito: “mando voi”. Diventate operatori di misericordia nelle vostre famiglie, nella società, in ogni ambiente dove vi trovate portate guarigione, liberazione, pace. E’ la missione della Chiesa: continuare l’opera stessa di Gesù. Come ha fatto e ci ha invitati a fare papa Francesco in questi anni.

In particolare in questo tempo pasquale, in questi cinquanta giorni che ci portano alla pienezza della Pasqua nel giorno della Pentecoste, siamo chiamati ad aiutarci insieme ad essere una comunità che rinasce, si trasforma, accogliendo Gesù nella Parola, nel Pane dell’eucaristia, nel suo Spirito, ogni domenica. Comunità che prega ora perché lo Spirito del Risorto illumini i suoi pastori nelle importanti decisioni che saranno chiamati, a giorni, a compiere; comunità capace di continuare nel tempo, con chi sarà il nuovo papa, la missione di Gesù: missione di amore e di misericordia per portare l’umanità intera alla pace, alla Sua Pace.


giovedì 24 aprile 2025

LA LEZIONE SULLA PACE - L’eredità per un Occidente smarrito, di Mauro Magatti.

 

Chi perde la propria vita, la trova.

Forse è questo l’epitaffio più appropriato per Papa Francesco.

Che senza troppo riguardo per la sua salute si è speso, con atti umilissimi e luminosissimi, fino alle ultime ore della sua vita: la visita in carcere il Giovedì Santo e poi il giro in piazza accarezzando i bambini domenica mattina. Fino all’ultimo tra la gente per “sentire l’odore delle pecore”. A cui dava e da cui riceveva vita. Senza calcolo, nell’abbandono fiducioso (cioè pieno di fede) alla vita.

Nella logica paradossale che attraversa tutto il Vangelo.

Concretezza è una parola cara a papa Francesco. Concretezza intesa come capacità di tenere insieme una visione universale con la realtà spicciola della vita. Il verticale del rapporto con Dio e l’orizzontale del rapporto con gli uomini. Il grande incrocio di cui parla il simbolo cristiano per eccellenza.

Di gesti umilissimi e potentissimi che tenevano insieme queste due dimensioni Francesco ne ha fatti molti.

Dalla prima uscita a Lampedusa, per dire che il Mediterraneo non può trasformarsi in un cimitero liquido, al bacio – inginocchiato – dei piedi dei signori della guerra del Sud Sudan; dalla preghiera solitaria nella notte del Covid alla corsa affannosa all’ambasciata russa per implorare la pace. E tanti altri ancora.

Papa Francesco, capo della Chiesa, si è spogliato di ogni onore, non per desacralizzare il suo ruolo, ma per interpretarlo nel modo in cui il Vangelo insegna. Dove il più grande si fa più piccolo, dove colui che serve è colui che dovrebbe stare a tavola.

La forza di questo messaggio è stata impressionante. Lunedì mattina, quando la notizia della sua scomparsa si è diffusa, il mondo intero ha provato un senso di smarrimento. Con Francesco è venuto meno un punto di riferimento certo. Un’autorità autentica. Francesco sapeva che l’autorità non è gestione del potere, ma una porta che, mentre aiuta a orientarsi nel caos e nella confusione del mondo postmoderno, apre all’ “oltre”. Quell’ “oltre” che Francesco, con la sua persona, ha reso visibile in modo luminoso. In un’epoca in cui l’autorità è spesso svuotata, lasciando spazio solo al potere di fatto, Francesco ha mostrato che l’unico modo per rigenerare il significato della vita è attraverso l’autenticità della vita personale.

In questo modo Francesco ha voluto tracciare la via per rispondere al problema filosofico e teologico posto da papa Benedetto: la separazione sempre più evidente tra fede e ragione. Una frattura che Benedetto ha vissuto come la fine di un’epoca.

Bergoglio, eletto inaspettatamente Papa a 78 anni, ha indicato che per ricucire questa relazione non basta una nuova teoria filosofica o una dottrina imposta con rigore intellettuale e disciplinare. La via invece è invece quella tracciata dal Vangelo: tenere insieme il verticale e l’orizzontale. Pregare sentendosi precari e fragili su questa terra e ricevere da questa apertura la forza di amare il mondo intero. A partire dagli ultimi che sono il punto di rottura delle nostre certezze, delle nostre sicurezze, delle nostre chiusure.

Solo se i cristiani saranno concretamente capaci di stare accanto all’umanità sofferente che viene scartata da questa società e nello stesso tempo aperti a ciò che trascende l’esperienza umana potranno contribuire a ricucire quel rapporto oggi smarrito. Questa ricucitura, quando maturerà, si realizzerà su basi nuove, più avanzate rispetto al passato, perché avrà attraversato l’esperienza esaltante, ma sempre rischiosa, della libertà. Come ogni padre sa, la libertà è un passaggio necessario per giungere alla pienezza del disegno della vita.

Per inciso questo percorso - che non è né semplice né breve - è anche il grande contributo che le Chiese cristiane possono dare a un Occidente che rischia una pericolosa involuzione. Per questo Francesco ha insistito tanto sul tema della pace. Pace oggi vuol dire dialogo tra culture e tra religioni. Tra visioni del mondo. Il che necessariamente esige la ridefinizione del rapporto tra fede e ragione.

Raccogliere l’eredità di Francesco significa dunque lavorare per rigenerare la Chiesa e aprirla a un futuro che ancora non conosce. E per contribuire, allo stesso tempo, a ridefinire il ruolo di un Occidente che, smarrito in un mondo diventato piccolo, se vuole essere fedele alla sua storia, deve trovare la chiave del dialogo fraterno.

Etimologicamente, “erede” è colui che prende tra le mani. Abbiamo tra le mani un patrimonio straordinario. Sta a noi esserne all’altezza.

Mauro Magatti, dal quotidiano “Avvenire” del 24 aprile 2025