“Venne nella sua
patria... il sabato… nella sinagoga”: Gesù in mezzo a coloro che lo conoscevano
fin da piccolo, che lo avevano visto crescere. Sembra dunque scontata
l’accoglienza, la comprensione, il riconoscimento per quanto diceva e faceva. E
invece… Allo stupore iniziale, “molti
ascoltando rimanevano stupiti”, fa seguito una cascata di domande che in
sintesi stanno a dire: ‘Ma chi pensi di essere? Sappiamo tutto di te, sei come
noi, uno dei nostri’.
Gesù
non viene capito dai suoi: appare loro troppo diverso da come lo conoscevano;
per questo non lo ascoltano e non credono in ciò che lui dice di essere: l’inviato
di Dio, il profeta-Messia.
Anzi
“era per loro motivo di scandalo”.
‘Figurati se Dio può ridursi ad essere “il falegname, il figlio di Maria, il
fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone”.
Così
sicuri di sapere tutto di Dio, hanno la pretesa di rinchiuderlo nelle loro
certezze; lo rifiutano per quello che veramente è e non gli credono. Non
avrebbero avuto difficoltà ad accoglierlo se si fosse presentato loro con i
tratti della straordinarietà e del prodigioso, o della forza e della potenza.
Ma Gesù si presenta loro come un uomo normale, uno di loro, di cui sanno tutto:
da dove viene, come è cresciuto, il mestiere che ha appreso, i legami
parentali. Come può nascondersi dietro tutto questo la novità di Dio, Dio
stesso?
Il
dio delle loro immagini si scontra con il Dio reale che si rivela nell’uomo
Gesù di Nazaret. Incapaci di cogliere la manifestazione di Dio nella fragilità
e quotidianità di un’esistenza pienamente umana, si chiudono nella loro
incredulità, nel rifiuto. Non si
lasciano né interpellare, né provocare fino in fondo dalla sua presenza, pur di
non mettere in discussione il loro mondo, le loro sicurezze.
Eppure
quella gente andava ogni sabato alla sinagoga, leggeva le Scritture, pregava e
cantava; ma nonostante ciò, hanno riconosciuto la novità di Dio che li visitava.
Questo
ci ricorda che la fede non è fare qualcosa, ma accogliere Qualcuno; quel Dio
così come è e non come lo vogliamo, come Lui si manifesta e non come a noi fa
piacere immaginarlo.
Ecco
l’invito che oggi si rinnova per noi. Come quella gente di Nazaret, anche noi
veniamo in chiesa alla domenica, leggiamo le Scritture, preghiamo e cantiamo,
facciamo processioni e quanto più, ma alla fine lo accogliamo oppure, di fatto,
lo rifiutiamo perché troppo diverso dalle idee che ci siamo fatte, perché non
vogliamo rinunciare a una religione tutto sommato comoda, che ci fa sentire
‘giusti e buoni’ solo perché facciamo determinate cose? Ma Dio in Gesù non è
venuto per tranquillizzare le nostre coscienze, per farci sentire ‘a posto’, ma
per rovesciare i nostri convincimenti e farci sentire ‘fuori posto’, bisognosi
sempre di conversione, di ricerca, di apertura.
E’
un Dio, quello rivelato in Gesù, che ci interpella e ci chiama a riconoscerlo
soprattutto nell’umano, nella fragilità della persona, nella debolezza della nostra
natura. Un Dio fatto uomo e presente dentro la nostra umanità, in ogni uomo e
donna. E’ questo lo scandalo dell’incarnazione: che ci impedisce di chiudere
Dio nella certezza delle nostre idee, ma ci costringe a ricercarlo e
riconoscerlo dentro l’umana esperienza, così segnata da fragilità e debolezza.
Il
vero Dio (non quello che noi immaginiamo) è sempre altro e oltre. E’ un Dio che
da sempre abita la fragilità. Nella fragilità del profeta, come ci ricorda la
prima lettura, il suo Spirito opera, lo fa alzare in piedi e parlare e “ascoltino o non ascoltino.. sapranno almeno
che un profeta si trova in mezzo a loro”. Lo stesso Paolo riconosce che
proprio nella debolezza che sperimenta, come “spina nella carne” che lo limita, opera la grazia di Dio: “Ti basta la mia grazia: la forza si
manifesta pienamente nella debolezza”. Per questa certezza di un Dio
presente dentro la nostra fragilità può esclamare: “quando sono debole è allora che sono forte”. Così è nell’umanità
di Gesù, il nazareno, “il falegname,
figlio di Maria”; in questa fragilità umana è presente quella Divinità che
agisce e salva.
Questi
è il Dio che Gesù ci rivela; Lui siamo chiamati a riconoscere, ad accogliere, a
credere. Perché questo avvenga occorre tuttavia saper uscire dalla presunzione
di sapere già tutto di Lui. Occorre disporci a uno sguardo diverso che impara a
riconoscerne la presenza là dove nessuno oserebbe farlo; occorrono occhi nuovi,
gli occhi della vera fede, “occhi rivolti
al Signore”, come abbiamo pregato nel Salmo. Occhi che sanno andare oltre
le apparenze e riconoscere il Dio incarnato, presente lì dove fragilità e
debolezza parlano invece di vuoto. Il Dio di Gesù è il Dio che riempie il vuoto
dei nostri limiti, gli abissi delle nostre fragilità. Il Dio che abita
l’umanità fino a farsi uomo. Significa allora riconoscerlo nelle persone che
incontro, che apparentemente non sono affatto amabili, diversi da me per
carattere, nazionalità, religione… Accoglierlo nel povero, nel debole, in
quell’umanità che non conta, che non emerge, che non è al top! Più facile una
religione delle feste, di un Dio esaltato e inneggiato con canti e gesti
esteriori, ma poi dimenticato e rifiutato nella concretezza del quotidiano,
nell’umanità che ogni giorno mi interpella e mi provoca. Gli occhi della fede sono quelli che lo sanno
qui dentro scoprire e accogliere.
E
solo così allora potremo fare esperienza della forza del suo amore, dei prodigi
della sua bontà. A Nazaret “non poteva
compiere nessun prodigio”. E da noi? Una cosa tuttavia è certa: se anche
noi restassimo chiusi nei nostri schemi e nel nostro rifiuto, Lui continua “a percorrere i villaggi d’intorno,
insegnando”. L’amore non può essere fermato, nemmeno dall’incredulità.
L’amore va sempre oltre. Peccato che siamo noi a sciupare l’occasione di farne
esperienza.
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