sabato 29 novembre 2014

Prima domenica di Avvento



AVVENTO vuol dire VENUTA. La venuta di Dio in Gesù dentro la nostra storia. E non si tratta solo di un ricordo di quel Dio che in Gesù è già venuto (nel primo Natale), ma soprattutto dell’attesa di Lui che verrà (alla fine dei tempi) e di vigilanza per saper riconoscere Lui che continuamente viene in ogni giorno e ogni ora.
Con l’Avvento poi si apre per la chiesa un nuovo anno liturgico-pastorale: ci rimettiamo tutti nuovamente a seguire Gesù, per accoglierlo nella nostra vita.
Tempo di attesa interiore dunque; invitati ad accogliere, non tanto esteriormente, quanto interiormente la rinnovata venuta del Signore. Guidati e illuminati dalla Parola di Dio che, di questa venuta, ci indica alcuni aspetti.
Una venuta innanzitutto da invocare.
E’ l’invito che ci offre la prima lettura. “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Ritorna!”. Un’invocazione che nasce non tanto perché le cose vanno male, perché abbiamo bisogno di aiuto, ma soprattutto perché noi ci scopriamo induriti, avvizziti, lontani da Lui: nasce dalla consapevolezza della nostra fragilità, del nostro peccato. Perché coscienti che senza la Sua presenza, la nostra vita inaridisce. “Abbiamo peccato contro di te… siamo avvizziti come foglie… perché ci lasci indurire il cuore…, noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani… Tu  Signore sei nostro Padre… ritorna”. Una invocazione che deve risuonare non solo sulle labbra, ma soprattutto nel cuore. Solo Lui può plasmare questa nostra argilla e farne un capolavoro, rendendoci di nuovo sua immagine e somiglianza. Il nostro grido e la nostra preghiera accompagnino dunque i giorni dell’avvento: Vieni Signore Gesù.
Una venuta dunque da invocare con cuore desto.
Una venuta da preparare.
E’ l’invito che ci suggerisce la seconda lettura e il vangelo. Paolo ricorda ai Corinzi come siano “stati arricchiti di tutti i doni… non manca più alcun carisma a voi che aspettate la manifestazione del Signore”. Attendere la sua venuta non significa vivere nella passività, nell’inerzia, nella pigrizia, bensì far fruttare i doni ricevuti preparando così il fiorire della sua presenza tra noi. Ha “dato a ciascuno il suo compito” ricorda il vangelo. Che non “ci trovi addormentati”. Prepariamo la sua venuta facendo fruttificare i doni che il Signore ci ha dato, ravvivando l’impegno semplice e operoso della nostra vita quotidiana.
Io vengo – ci dice il Signore -, tu intanto fai la tua parte, valorizza i doni e i compiti che ti ho affidato, discerni tutto il bene che c’è dentro la tua vita e la tua storia, opera quanto puoi per fare di questa casa che è il mondo il luogo della mia presenza.
Una venuta dunque da preparare con mani operose nell’amore.
Una venuta infine da riconoscere.
E’ l’appello che ci viene dalla pagina del Vangelo di oggi. “Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. Quello che dico a voi lo dico a tutti: vegliate!”.  Il Signore viene all’improvviso, quando meno ce lo aspettiamo: ogni momento, ogni ora può essere quella della sua visita, della sua venuta. Vegliare è all’opposto del dormire: “non vi trovi addormentati”.
Vegliare significa scrutare, come sentinelle, per riconoscere i segni, le tracce della sua venuta. Riconoscerle in noi, nella nostra vita di ogni giorno: tracce presenti nei desideri che portiamo nel cuore, nelle fatiche e nelle lotte quotidiane, nella ricerca paziente del vero, del buono, del bello. Solo chi vive sveglio può riconoscere il Suo passaggio. Riconoscere i suoi passi dentro la vita di fratelli e sorelle che ogni giorno incontriamo, nei fatti e nelle situazioni che ritmano le nostre giornate. Lui viene e viene dentro la vita e la storia. Viene non con clamore ed evidenza, ma nel silenzio e nel nascondimento.
Colui che veglia è chiamato non solo a non dormire, ma anche a stare in ascolto, in silenzio per saper percepire e riconoscere questo silenzioso venire. Viviamo così questi giorni, facendo più spazio all’ascolto della Parola, di noi stessi, della vita che affrontiamo; regalandoci momenti di silenzio che soli possono aprirci al riconoscere la sua venuta e presenza. 
Una venuta dunque da riconosce con occhi aperti.
Iniziamo insieme l’Avvento, che è il tempo che meglio dice il senso del nostro vivere, perché tutta la nostra vita è attesa, venuta, incontro. Sia tempo di risveglio interiore per invocare, preparare, riconoscere la venuta di Cristo.
Viviamolo con cuore desto che invoca, con mani operose che preparano, con occhi aperti che riconoscono Lui che viene e che, se accolto, può rinnovare la nostra vita e il mondo intero.

sabato 22 novembre 2014

Festa di Gesù, re e signore dell'universo.



Siamo giunti alla conclusione dell’anno liturgico.
La chiesa ci invita a fissare lo sguardo su Gesù, riconoscendo che lui è, nel tempo che passa, il signore, il re, il cuore dell’universo.
La Parola ascoltata presenta Gesù come colui che, venuto a compiere la sua missione in mezzo a noi, l’ha pienamente realizzata, manifestandoci il volto di Dio,  inaugurando il regno di Dio in mezzo a noi, vincendo contro le forze del male, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura di oggi.
 Egli ora guida, come pastore, tutti noi, verso la piena realizzazione, affinché si giunga tutti alla meta e “Dio sia tutto in tutti”: poche parole che dicono verso dove si muove il cammino della vita.
Verso quel Dio che lui ci ha rivelato, così diverso, così ‘altro’ da come noi lo abbiamo sempre pensato (e a volte continuiamo a pensarlo…). Un Dio non da cercare, ma che ci cerca, come un pastore (“io cercherò le mie pecore…andrò in cerca della pecora perduta”). Un Dio che ha pensieri di vita e non di morte, che desidera solo radunare tutti in sé, perché Lui sia tutto in tutti. Già il profeta ne descrive con verbi di efficace chiarezza questo suo modo di essere: “cercherò…radunerò….condurrò… farò riposare…fascerò… curerò…pascerò con giustizia…”.
Questo volto di tenerezza e di misericordia di Dio si fa manifesto nella vita di Gesù, il Figlio dell’uomo venuto, Dio tra noi, e che verrà alla fine perché “davanti a lui verranno radunati tutti i popoli” affinché si compia il regno annunciato e seminato nei solchi della storia e nel cuore degli uomini.
Con Gesù Dio è entrato dentro la nostra storia fragile, dolorosa, segnata dalla morte, per generarla alla vita, per guidare ciascuno di noi alla pienezza di vita che ha il suo compimento appunto quando “Dio sia tutto in tutti”.
Verso questo compimento si muove l’umanità intera; a lui tutti i popoli convergeranno, così come in modo pittorico ma estremamente efficace descrive Matteo nel brano del vangelo.
Lì si manifesterà allora, ancora una volta, questo volto sorprendente di Dio che Gesù ha rivelato.
Volto di giudice certo, ma ben diverso da come lo possiamo immaginare; il giudice rimane pastore, rimane figlio dell’uomo, re, riferimento e guida per tutti.
E il giudizio sarà a sorpresa.
Non saranno le colpe, gli sbagli, i peccati da noi commessi il motivo del giudizio; questi, nella sua misericordia sono già dimenticati; ci troveremo a misurarci con il bene fatto oppure rifiutato.
Misura del giudizio sarà l’amore.
Dio non ci giudicherà in base alle nostre debolezze, ma in base al bene che avremo fatto o non fatto.
Non è un Dio che ti giudica e condanna se non ce la fai a vivere in un modo più alto, ma un Dio che ti giudica in base alle cose migliori della tua vita; sulla base di quell’amore dato gratuitamente a ogni persona e creatura, perché in esse – sia che ne eravamo consapevoli o meno – Dio stesso abita ed è presente.
Il Dio, entrato con Gesù nella storia dell’uomo, è il Dio che è già in tutti e che alla fine sarà tutto in tutti. E dunque ogni atto d’amore concreto compiuto verso ogni creatura, a incominciare dai piccoli, dai bisognosi, è atto compiuto verso di Lui: “l’avete fatto a me”.
Questa è la sorpresa finale: “Quando mai Signore…?” Senza saperlo lo hanno amato, amando ogni piccolo, ogni creatura. Ciò che ci salva non è tanto sapere chi è Dio, presumere di conoscerlo, bensì amarlo attraverso quel creato e quelle creature dove Lui già è presente; amarlo attraverso i semplici gesti quotidiani di amore verso ogni creatura.
“Venite benedetti”: così ci riconosceremo davanti a lui se la nostra vita sarà stata contrassegnata dalla concretezza dell’amore, umile e silenzioso, paziente e generoso, dispensato gratuitamente verso tutti coloro che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino. Non ci verrà chiesto se avremo fatto miracoli, se avremo avuto visioni, ma solo se ci siamo presi cura dell’altro, se abbiamo regalato tenerezza e misericordia.
Festa di Cristo re: per ricordarci dunque che la storia tutta è nelle sue mani; non mani di un despota severo e padrone che domina, ma di un Figlio che rivela il volto del Padre, di un pastore che cerca e raduna l’umanità per farla entrare nella comunione di vita con Lui.
Una storia che, pur in mezzo alla lotta contro le potenze del male, continua il suo cammino verso la pienezza della vita, guidata da Colui che già ha vinto il male e ci invita, da lui guidati e sostenuti, a resistere ad esso attraverso la concretezza dell’amore.
Quell’amore che rimane unica strada che porta alla vita. Unica strada che ci è data da percorrere se vogliamo salvare questa nostra umanità, se vogliamo affrontare e tentare di risolvere le tante emergenze che contrassegnano il nostro vivere quotidiano.
Questo amore, che avremo attuato anche a costo di fatica e sacrifici, è ciò che Dio conserva come tesoro prezioso e per questo egli ci riconoscerà e ci chiamerà con sé “Venite benedetti nel regno preparato per voi”.
E allora “Dio sarà tutto in tutti”, sarà tutto in me, in ciascuno di noi, senza più la morte, per sempre.

domenica 16 novembre 2014

33° domenica del tempo ordinario / A



Ci sono due eccessi nella vita di oggi: da una parte l’attivismo frenetico che non concede tregua alcuna, rendendoci schiavi dell’orologio, del computer, del cellulare, degli infiniti impegni che ritmano le giornate…; dall’altra l’indifferenza più assoluta, il pensare solo ai propri interessi, alle proprie preoccupazioni, senza scomodarsi affatto per gli altri…
Due eccessi che tante volte si incontrano: il nostro frenetico vivere diventa un pensare solo a noi stessi.
Siamo invitati, dalla Parola di Dio oggi, a ritrovare un equilibrio, a uscire da una vita dispersiva, a tendere a una vita più armonica e feconda.
Per fare questo occorre innanzitutto verificare il nostro modo di vivere “i tempi e i momenti” – come ammonisce Paolo nella seconda lettura – che la vita ci presenta. Paolo richiama i cristiani a quella vigilanza che deve tradursi in un saper vivere con responsabilità. “Non dormiamo, vegliamo, siamo sobri”. “Non siete nelle tenebre… siete tutti figli della luce e figli del giorno”. E’ invito a una vita luminosa che non cade negli eccessi sopra accennati, ma si attua nell’equilibrio della responsabilità, capace di riconoscere “i tempi e ei momenti”, le occasioni che ci vengono date e di farle fruttificare al meglio.
Esempio di tale vita vissuta con responsabilità è l’immagine della donna che il libro dei Proverbi ci presenta nella prima lettura. Un’immagine che è riferita non tanto alla donna in sé, bensì vuole rappresentare l’umanità stessa, quello che dovrebbe essere il modo di vivere del popolo di Israele, di cui appunto la donna è immagine.
In lei vediamo descritta una vita non certo dispersiva, anzi: sa unificare ogni cosa (corpo, mente e spirito), divenendo così capace di vivere con responsabilità i doni ricevuti. Una responsabilità che si traduce in affabilità, laboriosità, vigilanza, generosità. Una vita dunque che si realizza in modo luminoso, in piena armonia, lasciando attorno a sé una scia di luce, di bellezza, di bene: “superiore alle perle è il suo valore”. Così dovrebbe essere il nostro vivere nel mondo.
E il vangelo torna sul tema presentandoci la figura dei tre servi. Anche in loro possiamo vedere cosa significhi vivere con responsabilità o meno, e il risultato che ne deriva. La felicità e la realizzazione (“prendi parte alla gioia del tuo padrone”) oppure il fallimento (“gettatelo fuori nelle tenebre”). Luce e tenebre ritornano anche qui a indicare un modo di essere e di vivere.
Ma importante e interessante è notare che il diverso modi di agire di questi servi è strettamente legato all’idea e al rapporto che essi hanno con il loro padrone.
I primi due percepiscono che questo padrone-signore è estremamente generoso e pieno di fiducia nei loro confronti, né colgono tutta la gratuità del dono ricevuto (non dato in prestito…: “consegnò” dice il testo: è un dare senza riprendere). Si rendono conto che più che servi li considera suoi collaboratori, di più: quasi suoi familiari. E tali si sentono. E la consapevolezza di ciò, li spinge a impiegare con libertà, genialità, generosità quanto ricevuto.
Il terzo servo invece si è fatta un’idea diversa e sbagliata “so che sei un uomo duro… ho avuto paura”: pensa al padrone con paura, teme il suo giudizio, non coglie la sua gratuità, ma vede il rapporto con lui in termini di contratto; è rimasto servo, non ha colto l’opportunità e il dono ricevuto. Da questo modo di vedere e pensare deriva paura, timore, calcolo, che portano questo servo non a impiegare, ma a nascondere, a conservare quanto ricevuto.
Il risultato è descritto chiaramente. La fiducia nella gratuità e nell’amore del padrone, che ha portato i due servi al moltiplicare i doni del suo amore, è premiata: “Bene, servo buono e fedele”; e il padrone non solo non richiede quanto dato, ma rende partecipi di tutti i suoi beni, di tutta la sua vita: “ti darò potere su molto.. prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Non sono più servi, ma signori come Lui.
La paura che invece spinge a chiudersi e a conservare quanto ricevuto in dono porta al fallimento: “Servo malvagio e pigro”. E’ il “servo inutile”: perché chiamato ad essere signore, è rimasto servo. E’ rimasto seppellito nelle tenebre, perché ha seppellito i doni, le opportunità ricevute. Una persona che ha fallito la sua esistenza per paura.
Il cuore della parabola dunque è condurci a una corretta immagine di Dio e a costruire con Lui una relazione giusta, liberandoci dalla paura di Dio che impedisce di realizzarsi. Solo così tutta la nostra vita potrà diventare produttiva, feconda.
Dio, ci ricorda Gesù, non è un padrone avido, cui preme il guadagno, la resa, ma un padre che ci riempie di doni e desidera solo che viviamo rimanendo fedeli al Lui, fiduciosi nel suo amore, perché solo così questi doni potranno moltiplicarsi, diffondersi.
Noi non viviamo per restituire a Dio i suoi doni, ma per essere resi partecipi del suo amore, per essere trasformati da servi in signori, da schiavi a figli. Solo la fiducia in lui può aprirci a vivere come figli della luce. La paura invece che ci chiude in noi stessi, alla fine ci immerge e ci soffoca nelle tenebre. Dal rapporto che viviamo con Dio deriva dunque l’impostazione della nostra vita e dipende poi il nostro modo di agire nella storia.  Se tutto si riduce a un rapporto contrattuale (padrone-servo) la vita diventa calcolo, paura di sbagliare, stretta osservanza di regole, conservazione e attaccamento a quanto ricevuto.
Se invece ci apriamo a un rapporto di gratuità e di amore (padre-figli) la vita allora diventa opportunità, capacità di generare e moltiplicare l’amore ricevuto, fantasia e generosità per moltiplicare e far crescere quel Regno di Dio che ci è stato messo nelle mani perché, come figli, collaboriamo a diffonderlo con amore e non a seppellirlo per paura. 
Che cristiani siamo dunque? Conservatori o creativi? Pigri o responsabili? Un’immagine sbagliata, errata di Dio, può rovinare per sempre l’esistenza del credente e la vita-missione della chiesa stessa.  Sta a noi aprirci con fiducia a Lui così da vivere nel tempo con responsabilità e armonia, non sciupando i momenti e le occasioni che Lui ci offre, moltiplicando i doni del Suo amore

sabato 8 novembre 2014

Festa della dedicazione della basilica del Laterano



Oggi tutti i cattolici di rito latino si uniscono alla Chiesa di Roma per ricordare e celebrare la Dedicazione della loro cattedrale, la basilica del Laterano, che è il simbolo dell’unità di tutte le Chiese, di cui il papa pure è figura. Con questa festa quindi proclamiamo la nostra unità al vescovo di Roma papa Francesco, successore di Pietro.
Il passo del vangelo oggi ci ha portati sul piazzale del tempio di Gerusalemme. Là vediamo Gesù in atteggiamento insolito; non siamo abituati a un ‘Gesù collerico’. “Fece una frusta di cordicelle”. Con questo gesto Gesù vuol far conoscere in modo inequivocabile il suo dissenso ad una pratica cui tutti erano abituati e che molti giudicavano addirittura bella e buona. Il piazzale del tempio, luogo destinato alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio, era occupato invece da attività commerciali e finanziarie. Cambiavalute e venditori di animali avevano il loro posto proprio là.
È pur vero che sia il denaro che gli animali venivano usati per le offerte e i sacrifici ad onore di Dio. Ma di fronte ai pellegrini e a chi saliva per l’incontro con Dio, che figura ci faceva proprio quel Dio che veniva onorato in tal modo?
L’idea di Dio che veniva trasmessa da quel traffico non era certo l’idea di un Padre buono che accoglie nel suo cuore tutti i suoi figli con amore disinteressato, ma piuttosto, per chi arrivava qui, Dio faceva la figura di essere un commerciante o un padrone affamato di denaro, che dev’essere accontentato. Più che figli ci si poteva sentire servi, se non addirittura schiavi.
Il gesto di Gesù è il minimo che ci potessimo attendere. «Fuori tutto, qui non è il posto per queste cose e per queste attività»!  Non fate della casa del Padre mio un mercato!”.
Gesù caccia i mercanti, perché la fede è stata monetizzata, Dio è diventato oggetto di compravendita. I furbi lo usano per guadagnarci, i pii e i devoti per ingraziarselo: io ti do orazioni, tu in cambio mi dai grazie; io ti do sacrifici, tu mi dai salvezza. (E.Ronchi)
Che cosa preme a Gesù?
A lui non preme il tempio, di per sè, ma il Padre e il rapporto che gli uomini devono vivere con lui. Il Padre dev’essere conosciuto e quindi amato come Padre.
Noi proprio questo vogliamo imparare e vivere nelle nostre chiese. Esse sono state costruite per raccoglierci in una preghiera serena, lieta, attenta, capace di ascolto, una preghiera nella quale il primo posto appartiene al Signore.
Le nostre chiese sono casa di Dio, luogo di incontro dei suoi figli in quanto figli suoi. Tutti devono potervi entrare, e tutti in esse devono essere aiutati ad incontrare il Dio dell’amore, della misericordia, della fedeltà, della pace, il Dio che parla a tutti e a ciascuno personalmente.
Nella chiesa quindi deve essere favorito il silenzio delle parole umane, il raccoglimento, togliendo tutto ciò che invece porta a distrazione, dispersione se non a un’idea errata di relazione con Dio, quasi fosse un padrone a cui rendere tributi.
Nel tempio è Dio che deve far conoscere il suo amore e la sua sapienza, quella che darà luce per comprendere e forza per vivere i vari momenti della nostra giornata.
Inoltre ciò che vale per l’edificio della chiesa vale anche per ogni persona, tempio del Dio vivente! San Paolo ce lo ricorda: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?”. Già Gesù si presenta come il vero tempio, il luogo dove Dio abita, alludendo appunto alla distruzione del suo corpo e alla sua risurrezione.
Questo ci insegna a riconoscere che il vero tempio dove Dio dimora è la vita di ogni essere umano prima ancora che dentro una chiesa di pietre. Dobbiamo allora anche dal nostro cuore scacciare lo spirito commerciale, cioè quegli atteggiamenti che ci portano a trattare e Dio e gli uomini in modo utilitaristico e servile. Noi siamo tempio di Dio, ma in noi c’è sempre qualcosa o qualche atteggiamento che deve essere scacciato, per diventare uomini e donne che si accolgono con gratuità e autentico amore.
Dei nostri templi magnifici non resterà pietra su pietra, ma noi resteremo, casa di Dio per sempre. C'è grazia, presenza di Dio in ogni essere. Passiamo allora dalla grazia dei muri alla grazia dei volti, alla santità dei volti. (E.Ronchi)
L’unico tempio di Dio libero e luminoso è Gesù. Egli è il tempio, tempio che dà vita a tutti con le acque che sgorgano da lui come ci ha ricordato la grandiosa immagine del profeta Ezechiele. Egli è fonte di vita ed egli farà anche di me e di te un vero tempio dove qualcuno può incontrare il vero Dio e riceverne la luce e l’amore.
Da Lui tutti noi attingiamo dunque le acque dello Spirito e diventiamo la sua chiesa, il suo corpo vivente, le pietre vive che sono unite tra loro e fondate su Gesù stesso, “infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo”. Da Lui veniamo resi capaci di edificare nella storia il suo regno di Dio.
Questa è la chiesa, la comunità cristiana. Uomini e donne che con la loro vita di comunione e di fraternità diventano nel mondo il tempio dove Dio abita. Certo poi occorrono anche le chiese di mura, ma solo a condizione che siano luoghi che aiutano a crescere come comunità in Gesù, luoghi dove non esercitare i nostri più o meno leciti traffici anche religiosi.., ma dove attingere all’acqua viva dello Spirito e della Parola per crescere insieme a immagine di Cristo divenendo con Lui e grazie a Lui il tempio vivo e santo di Dio.