sabato 27 aprile 2024

"Senza di me non potete far nulla" - Quinta domenica di Pasqua

 

Mi piace iniziare con questa frase di papa Giovanni: “Non siamo sulla terra a custodire un museo, ma a coltivare un giardino fiorente, destinato ad un avvenire glorioso.”

L’unico, il solo senso che possiamo cercare di dare alla vita si riassume in questa semplice e umile richiesta da parte di Dio, “che portiate molto frutto”: che senso avrebbe una vite che alla fine dell’estate non desse i suoi grappoli abbondanti? Che senso avrebbe una vita che non producesse frutti belli, buoni di bene, di bontà, di amore?

Tuttavia i tralci senza la vite restano sterili, ogni pianta senza la linfa vitale che circola in essa inaridisce. Ogni uomo e donna senza quella linfa interiore che si chiama Spirito rischia sterilità o addirittura di portare frutti velenosi e nocivi per sé e gli altri. Questo portare buon frutto non è possibile senza che in noi circoli, si diffonda, operi una linfa vitale, segreta, intima che feconda la nostra mente, il nostro cuore, tutto il nostro esistere, rendendoci così capaci di fecondità, di “portare frutto” per il bene nostro e di chi abbiamo accanto, anzi per l’umanità intera. “Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”.

Lui ci chiede di essere fecondi, portatori di frutti, generatori di vita. E questo si fa possibile perché la sua energia –l’amore- scorre in noi. Essa non va spenta, bloccata, ma deve trovare spazio nella nostra vita, nelle nostre opere, nei frutti che siamo chiamati a portare. Ciò si attua con il diventare discepoli di Gesù. Diventare, giorno dopo giorno, sempre più discepoli che apprendono da Gesù l’arte di portare buoni frutti. Interessante è notare come il “portare frutto” è strettamente legato al “diventare discepoli”. Quasi a ricordarci che i frutti attesi altro non sono che i frutti stessi che Gesù ha portato e che ora noi come suoi discepoli dobbiamo saper portare. Frutti che maturano “dal seme che muore”, da una vita aperta al dono e al perdono, spesa per gli altri, per il Regno e non conservata per sé, per il proprio comodo.

Ecco la necessità dunque della continua purificazione: “ogni tralcio che porta frutto lo pota” lo purifica “perché porti più frutto”. I contadini bravi lo sanno, che quando sulla pianta alcuni rami seccano c’è da prendere le cesoie e tagliare. Non per punizione, non per saggiare la resistenza alle prove e alla sofferenza, ma per la vita, perché, dopo, la pianta è più bella e può dare i suoi frutti migliori.

Noi dobbiamo quindi far di tutto per “rimanere in” Lui. E’ questo il nostro ‘unico’ impegno: “rimanere in” Lui. “Rimanete in me e io in voi” ci dice oggi Gesù. “Senza di me non potete far nulla”. Questo verbo è la parola chiave di tutta la riflessione. Viene ripetuto ben sette volte: rimanere. “Chi rimane in me e io in Lui, porta molto frutto”.  E oggi il rischio maggiore è proprio questo ‘stacco’ vitale. Proprio da parte nostra, di noi che ci diciamo cristiani ma senza questa relazione, riferimento primario a Gesù. Non è forse per questo che faticano a maturare frutti buoni mentre abbondano, in tutti i campi, erbacce e zizzania?  Dove sono i frutti del vangelo, il perdono, la pace, la giustizia, la misericordia, la fraternità? E’ ben altro quello che invece si coglie in mezzo a noi. Perché? Perché manca quel rapporto profondo, vitale con Gesù. Non di facciata, di abitudine, bensì rapporto di intimità e di comunione. Rapporto che è garantito dallo Spirito che abita in noi e che si attua attraverso l’ascolto della Sua Parola. “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi chiedete quello che volete e vi sarà fatto”: l’ascolto della Parola porta a mantenere il contatto vitale con Gesù e a consentirgli di prendere dimora in noi così che portiamo i suoi frutti.

Quei frutti di amore che hanno la capacità di generare storie nuove, relazioni diverse, gesti e scelte di giustizia e di pace. Di fare del mondo non un museo, ma un giardino fiorente, fecondo, ricco di vita.

 

sabato 20 aprile 2024

"Seminatori di speranza e di pace" - Quarta domenica di Pasqua - Giornata di preghiera per le vocazioni

Giovanni nella seconda lettura ci svela qualcosa di bello e di grande: il senso stesso della nostra vita e il nostro destino. Siamo tutti dei chiamati, per amore, ad essere figli di un Dio Padre. “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente!”. Per questo il nostro destino è che “noi saremo simili a Lui perché lo vedremo così come egli è”.

Tutto questo ha inizio per ogni uomo e donna con la chiamata alla vita (ecco perché essa è sacra e inviolabile sempre). E’ la prima vocazione per tutti: vivere e vivere per sempre!

Per noi cristiani poi si aggiunge la consapevolezza che questa vita di figli, questa vita eterna ci è donata solo da Colui che “è la pietra, scartata e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza”: Gesù. Con il Battesimo accogliamo in noi la forza della sua Pasqua e la consapevolezza di essere uniti alla stessa vita di Dio, Padre, Figlio e Spirito santo. E’ la vocazione cristiana: seguire Gesù, vivere come Lui e per Lui, ognuno secondo le capacità e i doni ricevuti.

Così dal Battesimo maturano le diverse vocazioni che qualificano la chiesa come “popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita – scrive papa Francesco nel messaggio di oggi -. Così, questa Giornata è sempre una bella occasione per ricordare con gratitudine davanti al Signore l’impegno fedele, quotidiano e spesso nascosto di coloro che hanno abbracciato una chiamata che coinvolge tutta la loro vita. Penso alle mamme e ai papà che non guardano anzitutto a sé stessi e non seguono la corrente di uno stile superficiale, ma impostano la loro esistenza sulla cura delle relazioni, con amore e gratuità, aprendosi al dono della vita e ponendosi al servizio dei figli e della loro crescita. Penso a quanti svolgono con dedizione e spirito di collaborazione il proprio lavoro; a coloro che si impegnano, in diversi campi e modi, per costruire un mondo più giusto, un’economia più solidale, una politica più equa, una società più umana: a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che si spendono per il bene comune. Penso alle persone consacrate, che offrono la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano. E penso a coloro che hanno accolto la chiamata al sacerdozio ordinato e si dedicano all’annuncio del Vangelo e spezzano la propria vita, insieme al Pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio”.

Vocazioni diverse di un unico popolo in cammino seguendo il Pastore buono e bello che “dà la propria vita”, ci conosce per nome e tutti vuole radunare: “ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”.

Con Gesù, ascoltato e seguito, impariamo così anche noi a donare la vita e a lavorare per l’unità e la fraternità universale in cammino verso la speranza della comunione di vita definitiva in Dio.

“Questo è, alla fine, - scrive ancora il Papa - lo scopo di ogni vocazione: diventare uomini e donne di speranza. Siamo tutti chiamati a “dare corpo e cuore” alla speranza del Vangelo in un mondo segnato da sfide epocali: l’avanzare minaccioso di una terza guerra mondiale a pezzi; le folle di migranti che fuggono dalla loro terra alla ricerca di un futuro migliore; il costante aumento dei poveri; il pericolo di compromettere in modo irreversibile la salute del nostro pianeta. E a tutto ciò si aggiungono le difficoltà che incontriamo quotidianamente e che, a volte, rischiano di gettarci nella rassegnazione o nel disfattismo. In questo nostro tempo, allora, è decisivo per noi cristiani coltivare uno sguardo pieno di speranza, per poter lavorare con frutto, rispondendo alla vocazione che ci è stata affidata, al servizio del Regno di Dio, Regno di amore, di giustizia e di pace. Essere pellegrini di speranza e costruttori di pace. Significa fondare la propria esistenza sulla roccia della risurrezione di Cristo, sapendo che ogni nostro impegno, nella vocazione che abbiamo abbracciato e che portiamo avanti, non cade nel vuoto. Nonostante fallimenti e battute d’arresto, il bene che seminiamo cresce in modo silenzioso e niente può separarci dalla meta ultima: l’incontro con Cristo e la gioia di vivere nella fraternità tra di noi per l’eternità. Questa chiamata finale dobbiamo anticiparla ogni giorno: la relazione d’amore con Dio e con i fratelli e le sorelle inizia fin d’ora a realizzare il sogno di Dio, il sogno dell’unità, della pace e della fraternità. Nessuno si senta escluso da questa chiamata! Ciascuno di noi, nel suo piccolo, nel suo stato di vita può essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, seminatore di speranza e di pace.

 


 

sabato 13 aprile 2024

"Pace e paura" - Terza domenica di Pasqua

 

Pace a voi!”, ancora una volta! Una pace che si immerge dentro le paure e le chiusure di quel gruppo di uomini e donne, tanto simile a tutti noi. Pace e paura. Lui la pace, noi la paura. Paura perché Lui ci pare lontano, un fantasma, staccato dalla nostra vita piena di problemi e incertezze. Ma Lui torna, Lui c’è sempre, per dirci “Pace”, ma soprattutto per farci sperimentare che Lui è realmente qui con noi, che non c’è motivo di cedere alla paura e allo sconforto.

Il racconto ascoltato vuole aiutarci a imparare a riconoscere la Sua Presenza proprio per saper vincere la paura ed essere oggi i suoi testimoni come i primi apostoli (1 lettura); per saper soprattutto vivere secondo il suo vangelo come ci ha detto Giovanni (2 lettura): “Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti; chi osserva la sua parola in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”.

E allora scopriamo come si manifesta la sua presenza.

Si tratta di segni umili, apparentemente scontati da sembrare inadeguati. Ma questa è la scelta di Dio, la strada che Lui percorre per stare accanto a tutti noi.

Il primo di questi segni sono le ferite; quelle ferite della croce che permangono nel corpo risorto. “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate…”. Siamo invitati a riconoscere che il Risorto è lo stesso che fu crocifisso e a riconoscere dunque nelle ferite che segnano il corpo di ogni fratello e sorella che accostiamo, le Sue ferite, la Sua presenza. Più ancora: invitati a “guardare e toccare”. Noi che oggi con troppa disinvoltura giriamo lo sguardo per non guardare chi soffre, chi fa fatica; per non voler vedere le piaghe e le ferite che segnano il corpo e lo spirito di tanti, siamo chiamati con forza a guardare e toccare. “Guardate e toccate…sono proprio io”. I poveri, i deboli non sono fantasmi di cui aver paura o da cui fuggire, sono il corpo ferito del Signore che chiede e attende di essere toccato per risorgere. Toccare: ciò prendersi cura; non solo limitarsi a vedere, ma muoverci a soccorrere imparando a riconoscere (e questo è decisamente sconvolgente) che proprio qui Lui, Dio, è presente, Lui vivente e risorto, perché ogni uomo e donna ritrovi speranza e coraggio.

Il secondo segno è la semplicità del quotidiano, delle relazioni. A noi sempre a caccia di qualcosa di diverso, di straordinario, Gesù ci ricorda che lui invece ama la semplicità delle cose di tutti i giorni. Dice il vangelo: “Poiché per la gioia non credevano ancora… disse: ‘Avete qui qualche cosa da mangiare?’ Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro”. Una Presenza che continua a manifestarsi nelle semplici cose della vita di ogni giorno: un pesce, del pane e del vino, il mangiare insieme... Non andiamo a indagare chissà dove, non perdiamoci alla ricerca di enigmi incomprensibili. Impariamo piuttosto a riscoprire e a rivalorizzare la semplicità delle cose quotidiane e in particolare delle relazioni come luogo e segno della presenza di Colui che è il Dio della vita.  

Infine ecco il segno della Parola, le Scritture: “’Sono queste le parole che io vi dissi…’. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture”. Quelle Scritture che da sempre parlano di Lui: “Così sta scritto… bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me…”. Solo “aprendo la mente” ad essa si aprono anche gli occhi e il cuore e la fede si fa possibile. Un’espressione significativa “Aprì loro la mente” che sarebbe da tradurre “Guarì loro la mente”. Quanto abbiamo bisogno di guarire le nostre menti, malate di falsità, di inganno, di vanità e sciocchezze, per arrivare a comprendere, per arrivare finalmente a credere che quel Gesù crocifisso è il Gesù risorto. E che questo Gesù risorto non è un fantasma, ma l’uomo pienamente riuscito, l’uomo nuovo nel quale anche noi possiamo, dobbiamo, diventare nuove creature. Testimoni in questo nostro oggi della sua presenza di pace che vince e supera ogni nostra paura.