Le domande di Pietro - quante volte perdonare? fino a quanto? - sono un po’ anche le nostre, perché alla fine un limite ci deve pur essere…
«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette»: è la risposta che spiazza Pietro e i nostri calcoli. L'unica misura del perdono – ci dice Gesù - è perdonare senza misura, generosamente, gratuitamente, sempre. È questione di qualità più che di quantità.
Ma perché devo perdonare? Perché devo rimettere un debito e dunque rimetterci? Perché cancellare l'offesa ricevuta da mio fratello? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.
Il motivo per cui siamo chiamati a vivere il perdono tra noi non sta in una legge, in un obbligo, ma solo nel modo di agire di Dio.
“Ricordati” ammonisce il Siracide nella prima lettura. “Ricordati della fine e smetti di odiare”; “Ricordati dell’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. Ricordati cioè dell’amore del Signore per te e quindi “non odiare il tuo prossimo”.
Paolo nella seconda lettura, aggiunge: “nessuno di noi vive per sé stesso… se noi viviamo, viviamo per il Signore”. È proprio questo ‘riferimento primo’ al Signore che deve plasmare il nostro modo di vivere, di stare con gli altri, e dunque di saper perdonare gli altri. Così come il Signore, in cui viviamo, da cui siamo amati senza misura e limite, allo stesso modo dobbiamo agire verso gli altri.
Gesù lo dice con la parabola dei due debitori.
Il primo doveva una cifra enorme al suo signore, qualcosa come il bilancio di uno stato: un debito insolvibile.
«Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava...» e il re provò compassione. Ecco il volto splendido e nuovo di Dio: modello della compassione; sente come suo il dolore del servo, prende a cuore la sua situazione, si commuove e ascolta il suo grido - il nostro grido - e il debito viene totalmente estinto.
Non è tanto un dimenticare, ma un guardare oltre, dare nuove opportunità e questo a motivo della compassione che abita il cuore del re e lo spinge a usare questa più che il diritto e la legge.
Il perdono non è dimenticare, ma trasformare: usare quella compassione che trasforma l’altro rendendolo capace di un nuovo inizio.
Il servo perdonato, «appena uscito», trovò un servo come lui che gli doveva qualche denaro. Subito vorremmo vedere questo nuovo inizio; ci aspetteremmo un sorriso, la gioia e di conseguenza la stessa compassione, ricevuta e ora donata.
«Appena uscito»: non il giorno dopo, non un'ora dopo. «Appena uscito», appena dopo aver fatto l'esperienza del perdono, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: "Ridammi i miei centesimi"», lui perdonato di miliardi!
In fondo, era suo diritto: lui è giusto e spietato.
L'insegnamento della parabola è chiaro: rivendicare i miei diritti non basta per essere secondo il vangelo, per vivere come figlio di Dio. La giustizia non basta per fare l'uomo nuovo. «Occhio per occhio, dente per dente», debito per debito: è la linea della giustizia. Dio invece ci chiede di seguire la via della compassione che diventa misericordia, perdono.
«Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa.
Chiamati dunque a perdonare: non si tratta di un di più, ma di una scelta che ci qualifica come discepoli, come cristiani.
Cammino faticoso, lento, ma cammino da compiere se vogliamo “vivere per il Signore” e così costruire e anticipare il suo Regno: “Il regno dei cieli è simile a un re” “buono e grande nell’amore” (Salmo).
Siamo chiamati a diventare, a piccoli passi, con pazienza, pur con tanta fatica, profezia di questo nuovo modo di agire e vivere, imparando l’arte e il coraggio del perdono. Perdonare non è debolezza, ma atto di grande coraggio; non è rinuncia, ma scelta di amare alla massima potenza; di amare come Dio. Il perdono altro non è che il vertice dell’amore, il modo più alto di amare. Solo Dio ne è veramente capace. Noi, che in lui viviamo, siamo tuttavia chiamati a camminare verso una sempre più crescente capacità di amare perdonando come Lui ci ama.
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