LA TENDA DI MAMRE, un luogo di silenzio e di ascolto, di ricerca e di incontro, di preghiera e di pace.
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lunedì 27 novembre 2017
sabato 25 novembre 2017
Gesù, re e signore dell'universo
Oggi la chiesa, alla conclusione dell’anno
liturgico, ci invita a fissare lo sguardo su Gesù, riconoscendo che lui è, nel
tempo che passa, il signore, il re, il cuore dell’universo.
La Parola ascoltata lo presenta come colui
che, venuto a compiere la sua missione in mezzo a noi, l’ha pienamente
realizzata, manifestandoci il volto di Dio,
inaugurando il regno di Dio in mezzo a noi, vincendo contro le forze del
male, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura di oggi.
Egli ora guida, come pastore, tutti noi,
verso la piena realizzazione, affinché si giunga tutti alla meta e “Dio sia tutto in tutti”: poche parole
che dicono verso dove si muove il cammino della vita.
Verso quel Dio che lui ci ha rivelato, così
diverso, così ‘altro’ da come noi lo abbiamo sempre pensato (e a volte
continuiamo a pensarlo…). Un Dio non da cercare, ma che ci cerca, come un
pastore (“io cercherò le mie pecore…andrò
in cerca della pecora perduta”). Un Dio che ha pensieri di vita e non di
morte, che desidera solo radunare tutti in sé, perché Lui sia tutto in tutti.
Già il profeta ne descrive con verbi di efficace chiarezza questo suo modo di
essere: “cercherò…radunerò….condurrò…
farò riposare…fascerò… curerò…pascerò con giustizia…”.
Questo volto di tenerezza e di misericordia
di Dio si fa manifesto nella vita di Gesù, il Figlio dell’uomo venuto, Dio tra
noi, e che verrà alla fine perché “davanti
a lui verranno radunati tutti i popoli” affinché si compia il regno
annunciato e seminato nei solchi della storia e nel cuore degli uomini.
Con Gesù Dio è entrato dentro la nostra
storia fragile, dolorosa, segnata dalla morte, per generarla alla vita, per
guidare ciascuno di noi alla pienezza di vita che ha il suo compimento appunto quando
“Dio sia tutto in tutti”.
Verso questo compimento si muove l’umanità
intera; a lui tutti i popoli convergeranno, così come in modo pittorico ma
estremamente efficace descrive Matteo nel brano del vangelo.
Lì si manifesterà allora, ancora una volta,
questo volto sorprendente di Dio che Gesù ha rivelato. Volto di giudice certo, ma ben diverso da come
lo possiamo immaginare; il giudice rimane pastore, rimane figlio dell’uomo, re,
riferimento e guida per tutti.
E il giudizio sarà a sorpresa.
Non saranno le colpe, gli sbagli, i peccati
da noi commessi il motivo del giudizio; questi, nella sua misericordia sono già
dimenticati; ci troveremo a misurarci con il bene fatto oppure rifiutato.
Misura del giudizio sarà l’amore.
Dio non ci giudicherà in base alle nostre
debolezze, ma in base al bene che avremo fatto o non fatto.
Non è un Dio che ti giudica e condanna se
non ce la fai a vivere in un modo più alto, ma un Dio che ti giudica in base
alle cose migliori della tua vita; sulla base di quell’amore dato gratuitamente
a ogni persona e creatura, perché in esse – sia che ne eravamo consapevoli o
meno – Dio stesso abita ed è presente.
Il Dio, entrato con Gesù nella storia
dell’uomo, è il Dio che è già in tutti e che alla fine sarà tutto in tutti. E
dunque ogni atto d’amore concreto compiuto verso ogni creatura, a incominciare
dai piccoli, dai bisognosi, è atto compiuto verso di Lui: “l’avete fatto a me”.
Questa è la sorpresa finale: “Quando mai Signore…?” Senza saperlo lo
hanno amato, amando ogni piccolo, ogni creatura. Ciò che ci salva non è tanto
sapere chi è Dio, presumere di conoscerlo, bensì amarlo attraverso quel creato
e quelle creature dove Lui già è presente; amarlo attraverso i semplici gesti
quotidiani di amore verso ogni creatura.
“Venite
benedetti”:
così ci riconosceremo davanti a lui se la nostra vita sarà stata contrassegnata
dalla concretezza dell’amore, umile e silenzioso, paziente e generoso,
dispensato gratuitamente verso tutti coloro che abbiamo incontrato lungo il
nostro cammino.
Non ci verrà chiesto se avremo fatto
miracoli, se avremo avuto visioni, ma solo se ci siamo presi cura dell’altro,
se abbiamo regalato tenerezza e misericordia.
Festa di Cristo re: per ricordarci dunque che
la storia tutta è nelle sue mani; non mani di un despota severo e padrone che
domina, ma di un Figlio che rivela il volto del Padre, di un pastore che cerca
e raduna l’umanità per farla entrare nella comunione di vita con Lui.
Una storia che, pur in mezzo alla lotta
contro le potenze del male, continua il suo cammino verso la pienezza della
vita, guidata da Colui che già ha vinto il male e ci invita a resistere ad esso
attraverso la concretezza dell’amore.
Quell’amore che rimane unica strada che
porta alla vita. Unica strada che ci è data da percorrere se vogliamo salvare
questa nostra umanità, se vogliamo affrontare e tentare di risolvere le tante
emergenze che contrassegnano il nostro vivere quotidiano.
Questo amore, che avremo attuato anche a
costo di fatica e sacrifici, è ciò che Dio conserva come tesoro prezioso e per
questo egli ci riconoscerà e ci chiamerà con sé “Venite benedetti nel regno preparato per voi”. E allora “Dio sarà tutto in tutti”, sarà tutto in
me, in ciascuno di noi, senza più la morte, per sempre.
sabato 18 novembre 2017
Trentatreesima domenica del Tempo ordinario
Siamo forse
troppo abituati a liquidare in fretta questa parabola che alla fine ci sfugge
tutta la sua ricchezza e il suo significato. Riduciamo tutto a una questione di
talenti, chi ne ha più chi ne ha meno e al dover darsi da fare per
moltiplicarli… Vero, ma poco.
Proviamo a
guardare con più attenzione alla figura del terzo servo, quello che riceve un
solo talento. Magari mettiamoci anche nei suoi panni.
Che cosa ha fatto
di male alla fine? Non ha sprecato nulla, ha messo tutto in sicurezza, ha
riconsegnato integro il talento ricevuto… Perché viene trattato così male?
Alla fine bisogna
riconoscere che agli altri due gli è andata bene: hanno investito
moltiplicando, ma potevano anche perdere tutto o in parte quanto ricevuto.
Hanno rischiato, mentre l’ultimo è andato sul sicuro: ha messo in sicurezza.
Ma forse sta
proprio qui il vero messaggio della parabola che ci svela il modo diverso di
vedere le cose da parte Dio.
Noi tendiamo a
stare sul sicuro: sicurezza, precauzione, attenzione… E’ un po’ anche la
mentalità di oggi: in tutti i campi si parla di sicurezza, si vuole sicurezza e
anche dal punto di vista religioso spesso riduciamo tutto a metterci in
sicurezza con qualche pia pratica, nell’osservanza di doveri e regole, cercando
di non sbagliare, di non peccare…
Dio invece vede
le cose in modo diverso e ci invita a rischiare di più. Con la parabola sembra
voler dire: non vivere per mettere al sicuro te stesso, le cose e i doni che
hai, ma rischia, impiega, mettiti in gioco.
Non conta se hai
poco o tanto: io non sono un banchiere che conta quanto produci, sono un padre
che desidero vedere i miei figli non a fare niente, ma a valorizzare la loro
vita, a condividerla con gli altri con generosità.
Per me conta non
quanto tu mi restituisci (nota bene che ai primi due servi non solo non rivuole
nulla ma dona ancora di più, dona la condivisione della propria vita: “prendi parte alla gioia del tuo padrone”),
conta che tu abbia il coraggio di mettere in gioco te stesso, la tua vita le
tue capacità il tuo tempo, e non di ‘assicurarla’ per restituirla intatta…
E’ anche
interessante capire perché questo terzo servitore cade nell’atteggiamento del
voler mettere tutto al sicuro senza rischio.
Il motivo lui
stesso lo spiega: “ho avuto paura”.
Paura del ‘padrone’. Si era fatto un’idea sbagliata del padrone: lo riteneva un
freddo contabile, uomo duro pronto a giudicarlo. Cosa che gli altri due invece
non pensano, anzi si fidano del padrone e lo scoprono grande e generoso, pronto
ad apprezzare, non tanto la loro resa, quanto hanno fatto, ma il loro
atteggiamento, il loro coraggio di rischiare e di affrontare con cuore aperto e
generoso la vita.
Credo che se
anche i due servi non fossero riusciti a guadagnare il doppio, non sarebbe
cambiato nulla, proprio perché Dio avrebbe guardato il loro impegno nel mettere
in gioco se stessi e non la resa di capitale.
Ecco allora che
la parabola ci vuole aiutare anche a liberarci da una immagine sbagliata di
Dio, pensato e costruito quasi a nostra somiglianza, pronto a prenderci le
misure, a giudicarci su ciò che facciamo o meno.
Dio non è così;
la parabola lo presenta come signore dal cuore largo e generoso, pronto a farci
prendere parte alla sua gioia, alla sua vita, se di questa nostra vita abbiamo
avuto il coraggio di non tenerla stretta per noi, vivendo al minimo, ma di
condividerla con generosità, di spenderla a servizio degli altri.
Questa nostra
vita, dono splendido e grande, Dio lo mette nelle nostre mani, nelle mani della
nostra libertà.
Dono diverso e
particolare per ciascuno. Ma non da mettere in ‘sicurezza’ bensì spendere e giocare
per Lui e per gli altri.
Questo chiede a
noi anche attenzione e vigilanza, come ci ha ricordato Paolo, per non lasciarci
ingannare dalle tenebre, dal male, per non farci rubare la vita ma piuttosto
renderla sempre più luminosa, quali “figli
della luce e del giorno”.
Chiede poi
responsabilità e solidarietà: ce lo ricorda la donna della prima lettura che
rappresenta il popolo, la sposa a Dio gradita, capace di mettere se stessa e i
suoi beni a servizio in particolare dei poveri.
E’ anche l’invito
che papa Francesco ci rivolge in questa prima giornata mondiale dei poveri:
vivere nella condivisione, nella solidarietà, operando per generare giustizia,
fraternità e pace.
La vita allora
non diventa sfida a chi rende di più schiacciando magari gli altri, ma coraggio
di metterci tutti in gioco con ciò che si è e si ha – e ognuno è prezioso e
importante – perché nel servizio reciproco si costruisca una umanità più giusta,
fraterna e solidale; si faccia crescere dentro questa storia il regno di Dio,
così che un giorno possiamo sentirci da Lui accolti e benedetti: “Bene servo buone e fedele, sei stato fedele
non poco ti darò potere su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
venerdì 10 novembre 2017
Trentaduesima domenica del Tempo ordinario
Andare e venire:
sono lo sfondo che caratterizza le letture di oggi.
Un duplice
movimento: un andare incontro e un venire incontro. E’ il venire del Signore, è
lui la sapienza che viene incontro a noi: “va
in cerca di quelli che son degni di lei… si lascia trovare da quelli che la
cercano… va loro incontro”. “Il Signore discenderà dal cielo” ricorda Paolo
nella seconda lettura. Nel vangelo poi tutta la parabola è una tensione,
un’attesa dell’incontro e della venuta dello sposo (“non sapete né il giorno né l’ora”).
Insieme a questo
venire troviamo un richiamo costante in tutte le letture ad “andare incontro”: un “andare incontro al Signore in alto, e così
saremo sempre con il Signore”, ricorda ancora Paolo. Come la vergini del vangelo che “uscirono incontro allo sposo” e alla
voce che risuona nella notte “Ecco lo
sposo! Andategli incontro!” rispondono, risvegliandosi dal loro torpore, e
muovendosi verso di lui, come chi è alla ricerca, “chi si alza di buon mattino per cercarla… chi veglia a causa sua sarà presto
senza affanni”.
Andare incontro,
venire incontro; la vita cristiana è movimento: è uscire, cercare, andare
incontro a quel Dio che come sposo viene verso di noi, nei modi e nei momenti
più diversi.
La vita cristiana
è continua ricerca di quella sapienza che, non è teoria o dottrina, bensì una
persona che affascina, che sazia la nostra sete: “Ha sete di te Signore l’anima mia”.
Essere cristiani
è essere ricercatori, mai arrivati; è essere persone aperte, pronte a uscire da
sé per andare incontro alla vita, agli altri, alle situazioni, consapevoli che
ovunque e in tutto Dio viene e si manifesta.
C’è purtroppo il
rischio di chiuderci nel nostro guscio, nella nostra sicurezza di sapere già
tutto, di addormentarci avvolti dalla notte.
E’ il pericolo
nel quale si può cadere. E’ la nostra debolezza, saggi o stolti che siamo,
facilmente cediamo al sonno, ci assopiamo vuoi per le delusioni, vuoi per la
stanchezza, vuoi per un vuoto di attesa…
Ma la cosa grave
non è tanto l’addormentarsi; ciò è parte della nostra fragilità. Tutte le ragazze,
nel racconto del vangelo, si addormentano. Ma le sagge hanno con sé l’olio,
sono cariche dentro, piene di luce. Le stolte invece sono spente, vuote. Non
hanno dentro di sé quella carica interiore che, al risveglio, alla voce che
chiama, permette di rispondere con prontezza e in modo adeguato.
Uscendo
dall’immagine: occorre rimanere, pur nella notte e nella fragilità del sonno,
cristiani “carichi” di luce, con il cuore colmo di passione, di desiderio di
amore; abitati dalla Parola che illumina e dallo Spirito che ci rende
ricercatori assetati dello Sposo, di Dio. Questa è la saggezza che ci è
chiesta.
Al contrario,
stoltezza è vivere da cristiani ma spenti, vuoti, senza carica interiore, senza
passione e desiderio, senza accogliere e ascoltare la Parola di luce, più
rassegnati che innamorati! E quando manca l’olio dell’amore, può anche arrivare
lo sposo, ma noi non siamo pronti né a riconoscerlo, né ad accoglierlo.
Le parole del
vangelo sono cariche di tristezza e di serietà: “In verità vi dico: non vi conosco”. Riecheggiano le stesse parole
che Gesù pronuncia la capitolo 7 di Matteo: “Signore
signore, abbiamo fatto di tutto in tuo nome… Non vi ho mai conosciuti.
Allontanatevi da me voi che operate l’iniquità”.
Parole che
risuonano come giudizio, ma che hanno anche lo scopo di risvegliarci da un
torpore spirituale che rischia di chiuderci in noi stessi, nelle nostre false
sicurezze e di impedirci di vivere con sapienza e vigilanza.
Il rischio sta
qui: fallire l’incontro a causa del nostro torpore spirituale, del nostro vuoto
interiore.
“Vegliate”. Vegliare è
tenere acceso in noi una fede vigile, perseverante.
E’ avere con noi
quell’olio, quella ricchezza di una Parola vissuta e praticata nelle opere buone, che ci rende
luminosi pur nella notte; capaci di cercare, desiderare, riconoscere lo sposo
che viene in mezzo a noi.
Lui viene, non
sappiamo né il giorno né l’ora, ma viene.
Non sappiamo né
il giorno né l’ora perché ogni giorno e ogni ora sono il tempo della sua
venuta.
La sapienza è
l’arte di vivere il tempo imparando a riconoscere che l’oggi, il presente, è il
momento opportuno, il momento della visita, dell’incontro.
Nell’oggi, carico
di fatiche e di incertezze, avvolto spesso nelle tenebre che assopiscono, in
questo oggi viene, si fa presente il Dio Sposo che ci invita a riconoscerlo, a
incontrarlo.
A noi l’essere
uomini e donne saggi, che sanno vivere l’oggi carichi di desiderio, di
passione, di amore, che si lasciano guidare e illuminare dalla Sua Parola, così
da rimanere luminosi e pronti per riconoscerlo in ogni uomo e donna che
incontriamo nel cammino, in ogni fatto e situazione della vita. Per saperlo
accogliere e per far diventare anche la notte e la tenebra, luogo di luce e di
festa.
sabato 4 novembre 2017
Trentunesima domenica del Tempo ordinario
Oggi i primi a
confrontarsi con queste pagine della Parola di Dio siamo noi preti. Il profeta
nella prima lettura si rivolgeva contro i sacerdoti del Tempio e Gesù nel
vangelo, parlando alle folle e ai discepoli, mette in guardia proprio da coloro
che erano allora le guide religiose.
“Dicono e non fanno”. Ad essere sincero,
mi ci ritrovo. Dico e non faccio. C’è distanza tra la Parola che proclamo e la
mia vita. Abituato a parlare dalla dal pulpito, dico tante cose giuste e belle,
ma poi non sempre le faccio, le vivo.
E’ un vangelo
oggi che ci mette alle strette. E’ un esame di coscienza a cui siamo chiamati: preti,
ma anche tutti noi “folla e discepoli”
verso i quali la parola di oggi è rivolta.
E’ pur vero, come
ricorda Paolo nella seconda lettura che “la
Parola opera in voi che credete”: cioè agisce, scava dentro ciascuno,
illumina, nonostante coloro che l’annunciano poi non la vivono; “Fate quello che vi dicono – perché
viene da Dio – non fate quello che fanno
– perché viene solo da loro”.
A volte si sente
gente scusarsi dicendo: ‘ma non lo fanno nemmeno loro quello che dicono’
(riferendosi sia a preti e anche a politici…).
Questo tuttavia
non deve impedirci di accogliere la Parola e di viverla noi, al di là di quello
che altri fanno. “Ricevendo la Parola di
Dio l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come Parola
di Dio” dice Paolo, e di questo dobbiamo essere tutti capaci; senza
fermarci a chi la proclama e che, per la fragilità umana, non sempre è in grado
di viverla fino in fondo.
Dobbiamo pur
riconoscere che nessuno è esente dall’incoerenza tra il dire e il fare.
L’incoerenza fa quasi parte del nostro essere fragili e deboli creature. E Gesù
questo lo sa. E non contro questa debolezza lui si scaglia. Non contro
l’incoerenza, ma contro l’ipocrisia, Gesù se la prende. Noi non saremo
giudicati sull’aver raggiunto o no l’ideale, la perfezione (perché nessuno può
essere perfetto se non Dio solo); verremo invece giudicati se verso l’ideale
che la Parola ci propone, avremo camminato con sincerità, con l’infinita
pazienza di saper ricominciare sempre da capo. La severità di Gesù colpisce
l’ipocrisia, non la debolezza. E gli ipocriti chi sono? Coloro che invece di
riconoscere la loro debolezza e rimettersi sempre in cammino con cuore umile e
pentito, credono invece di essere nel giusto, solo perché dicono cose giuste.
Sono i moralisti che rendono la legge più dura per gli altri. Sono quanti,
chiusi in schemi rigidi, non camminano più, e tutto e tutti misurano dentro i
loro schemi.
E Gesù, nel brano
di oggi mette in guardia proprio verso questi atteggiamenti negativi, che anche
noi suoi discepoli corriamo il rischio di assumere: l’ipocrisia, la vanità “tutto fanno per essere ammirati”; il
gusto del potere, di farsi chiamare ‘maestri’.
Atteggiamenti su cui fare ogni giorno, tutti, un buon esame di coscienza.
La cosa più
importante tuttavia è che Gesù, mettendo in guardia da questi pericoli, offre a
chi vuole essere suo discepolo alcune semplici indicazioni per una vita piena e
autentica. Eccole: “Il più grande è colui
che serve”. “Non fatevi chiamare maestri… uno solo è il vostro maestro, voi
siete tutti fratelli”. L’agire nascosto invece dell’apparire; la semplicità
invece della vanità; il servizio invece del potere. Sono lo Statuto della nuova
comunità. Uno solo Maestro, Padre, Guida: il Dio che in Cristo si è fatto servo
di tutti noi, per renderci figli amati e fratelli. Ecco la vera gerarchia, se
proprio deve essercene una: Dio in basso, ai piedi, servo, e in Lui noi tutti
fratelli.
Dentro questi atteggiamenti
è chiamata a muoversi e crescere la nostra vita personale e la vita delle
nostre comunità, della chiesa tutta.
Quanta strada da
fare ancora! Un cammino di conversione si pone come urgente per tutti. Davanti
alle fatiche dell’oggi, come chiesa e come cristiani dentro la società, occorre
ritrovare il coraggio per chiederci con quale stile stiamo vivendo la nostra fede.
“Se non mi
ascolterete manderò su di voi la maledizione”, ammoniva
con forza il profeta Malachia. Ma la maledizione, di fatto, viene, non da Dio,
ma da noi stessi; dalle nostre scelte, dal nostro non ascoltare la Parola.
Vivendo lontano da Lui e diversamente dal suo Vangelo non facciamo altro che
aprire la strada a situazioni di fallimento: lo svuotamento delle nostre
chiese, il calo delle vocazioni, la frantumazione di un tessuto famigliare e
sociale, l’inaridimento delle nostre comunità… Non sono forse il frutto delle
nostre scelte, del nostro stile di vita cristiano, o meglio poco cristiano perché
fatto più di apparenza che di sostanza?
Occorre tornare
ad ascoltare il Signore. Ad ascoltare la sua voce. Voce che non vuole maledire,
bensì guidarci a una vita benedetta, piena autentica. Solo se lo si ascolta e
si cerca, pur con tutte le nostre debolezze e fragilità, di vivere secondo la
sua Parola, potranno aprirsi orizzonti di speranza e di novità.
Facciamoci l’esame
di coscienza che Gesù ci suggerisce, ma soprattutto riprendiamo il nostro
cammino assumendo come criterio di vita e stile di relazioni quella semplicità,
umiltà e capacità di servizio che Gesù ci propone come carta di identità del
nostro essere suoi discepoli e sua chiesa.