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sabato 29 luglio 2017

Diciasettesima domenica del Tempo ordinario



Sono ancora tre le parabole ascoltate oggi, così come domenica scorsa. Un unico filo le unisce tra loro: il regno dei cieli. “Il regno dei cieli è simile…”: così ognuna di esse ha inizio.
“Il regno dei cieli”, espressione identica a “il regno di Dio”, viene usata da Gesù per presentare le modalità attraverso le quali si sta attuando ora nella storia e si compirà poi alla fine dei tempi la presenza e l’azione stessa di Dio in mezzo a noi e in noi.

Partendo dalla terza parabola ascoltata Gesù ci dice che questo “Regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare che raccoglie ogni genere di pesci”.
E’ un’immagine molto bella se pensiamo che il mare stava a simboleggiare il luogo del male, della morte. L’immagine ci dice subito che l’agire di Dio è un agire che salva, che raccoglie tutta l’umanità, nessuno escluso nel suo abbraccio di salvezza; ci strappa dai gorghi del mare/male e ci raccoglie nella rete del suo amore.
Tuttavia a questa immagine fa subito seguito un’operazione di scernita, di separazione tra “pesci buoni e cattivi”.
Questo sta a ricordarci che, se Dio salva tutti, dipende però da noi, dalle nostre libere scelte stare nel suo abbraccio o rifiutarlo.
Dipende da come e verso chi si orienta la tua vita, quale è il tesoro e la perla per i quali hai speso te stesso e le tue energie.
Appare chiaro il legame con le prime due parabole.
Esse ci ricordano che vivere non è semplicemente lasciarsi vivere, lasciarsi trasportare dall’onda, dalla corrente, ma piuttosto ricercare ciò che vale, quel Regno che già tutti abbraccia e avvolge, ma che va scoperto e fatto proprio come un tesoro, una perla, con il coraggio di lasciare da parte ciò che invece non ha valore.
Vivere è ricercare ciò che veramente vale e saper orientare lì tutte le nostre energie. Questo “tesoro e perla” Dio li ha nascosti dentro il grande campo del mondo nella persona di Gesù. Chi trova Lui e lo accoglie tra il tesoro prezioso che dona senso a tutta la vita.
In questo non facile lavoro di ricerca (perché siamo distolti da mille voci ingannevoli) ciò che serve è l’aver ‘fiuto’…- diremmo noi -; in termini più precisi serve la capacità di discernimento, il saper cioè riconoscere e scegliere ciò che è giusto, buono, bello, vero. Ecco perché Gesù conclude le sue parabole dicendo che chi è divenuto discepolo (ricercatore) del regno dei cieli “è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.
Di questa capacità di discernimento ce ne parla anche la prima lettura presentandoci la figura di Salomone.
“Hai domandato per te il discernimento”: afferma il Signore davanti alla scelta fatta da questo ragazzo.
Un ragazzo chiamato a governare il popolo d’Israele, proprio lui cresciuto ‘con la camicia’ diremmo oggi, figlio di re non abituato a impegni e responsabilità.
Davanti al Signore riconosce questa fatica “non so come regolarmi”. Sono parole che anche noi a volte abbiamo sulle labbra: non so come fare, che scelta compiere, come comportarmi in questa e quest’altra situazione…
Proprio questa consapevolezza della propria incapacità apre la strada alla richiesta del dono più importante: un cuore saggio, un cuore capace di discernimento.
“Concedi al tuo servo un cuore docile”.
Questo Salomone preferisce, questo reputa più importante delle ricchezze, del successo, della lunga vita… Un cuore docile e saggio. Un cuore docile cioè che si lasci guidare non dal proprio io, ma dallo Spirito, dalla Parola del Signore. “Amo i tuoi comandi più dell’oro dell’oro fino… la rivelazione delle tue Parole illumina, dona intelligenza ai semplici”: così il salmo ci ha invitati a pregare.
Lasciamoci anche noi guidare dallo Spirito del Signore che opera attraverso la sua Parola e saremo così portati a discernere tra le tante proposte, parole, idee, cose, cioè che veramente conta e vale, il tesoro prezioso, la perla nascosta.
E dalla luce dello Spirito ci sarà data anche la forza, il coraggio di scegliere ciò che abbiamo scoperto, di orientare a questo tesoro tutto noi stessi e tutte le nostre energie.
Allora l’esperienza che ne deriverà sarà quella di una gioia incontenibile; quell’essere ‘pieni di gioia’, come quell’uomo che trova il tesoro, proprio perché abbiamo fatto nostro quel tesoro che è Gesù stesso, ricercato, scoperto, amato sopra ogni altra persona e cosa.
Il Signore doni a noi oltre a un cuore docile, anche un cuore fiducioso, un cuore consapevole che “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” come ci ha ricordato Paolo, perché sappiamo che Dio non vuole altro che la nostra salvezza, la nostra piena realizzazione: per questo ci ha pensati, chiamati, scelti, voluti, resi giusti, per glorificarci, renderci cioè partecipi della sua stessa vita. Per fare questo non aspetta altro che noi lo riconosciamo quale tesoro prezioso e lo accogliamo con gioia e disponibilità nella nostra vita.

Sedicesima domenica del Tempo ordinario



Da dove viene questa erba cattiva?
Quante volte un po' tutti ci siamo chiesti il perché del male e come il male possa rientrare nel grande amorevole progetto di Dio, come Dio lo possa permettere e perché il Signore non intervenga ad estirparlo.
Oggi il vangelo illumina di luce questo lato oscuro della nostra comprensione. Ascoltiamo le sue parole...
Egli rispose: - E stato un nemico a far questo!
Non ci sono dubbi, il male è seminato dal diavolo, che attraverso l'inganno ci spinge a fare e a farci del male.
Gesù lo chiama con un termine preciso e inquietante: il nemico.
Nemico della vita, dell'uomo, della natura, della storia umana, nemico di Dio. Dio con il male non c'entra nulla.
I contadini gli domandarono: — Vuoi che andiamo a strapparla via? È una richiesta del tutto legittima, doverosa. A chi non sta a cuore di poter estirpare il male, ogni male? Pronti a combattere dunque pur di sradicarlo. Sradicarlo dagli altri e attorno a noi; un po’ meno pronti a volerlo sradicare da noi stessi….
Ma egli rispose: — No! Perché così, rischiate di strappare anche il grano buono insieme con l'erba cattiva.
La risposta di Dio è impressionante nella sua semplicità, perfino disarmante: no, non si deve rischiare di strappare il grano buono.
A chi di noi a questo punto non sorge il dubbio che, se non strappiamo noi il male per paura di rovinare il grano buono, sarà il male stesso a soffocare e uccidere il buon grano?
Questo dubbio è lecito; ma noi ce lo poniamo perché ignoriamo due grandi principi dell’agire di Dio. Primo: nulla è impossibile per chi crede. Secondo principio: non puoi cambiare nulla e nessuno se non te stesso.
Gesù conosce bene queste leggi che tutto governano nell'universo, e sa bene che per quanto forte sia il male, più forte è il bene. 
Il vero obiettivo allora del "grano buono" non è estirpare il male (lo dice Dio stesso), ma convertire e riconvertire la propria vita nella luce, per rendersi più forte e sicuro nel bene. Ecco a cosa siamo chiamati, tutti.
Lasciate che crescano insieme fino al giorno del raccolto.
Lasciateè il verbo di Dio. Dio lascia libertà di crescita ai suoi semi di vita e ai semi di morte del suo nemico. Sì, sembra terribile, ma in questo c'è tutto il mistero della libertà divina lasciata all'uomo.
E ci dice di lasciar andare, perché noi non abbiamo nessun potere di cambiare ciò che è; noi possiamo cambiare solo noi stessi.
Ciò che è in nostro potere è seminare in ogni istante della vita il bene, è far crescere ogni seme positivo che c’è in noi, con pazienza, mitezza, accettandoci così come siamo, senza spaventarci di quella zizzania di male che c’è anche nella nostra vita.
Come affrontare questa sfida? Lo suggerisce Paolo nella seconda lettura: solo “lo Spirito può venire in aiuto alla nostra debolezza”. Lui può renderci capaci di uno sguardo più positivo e attento per riconoscere i segni della presenza di Dio, in noi e dentro la storia; per saper riconoscere quel seme che cresce nascosto e silenzioso aprendoci così ad atteggiamenti di fiducia, di pazienza, di misericordia, di bontà verso tutto e tutti.
Il lasciate che crescano insieme” allora non significa rinunciare, rassegnarsi; anzi: significa seminare, coltivare, e lasciar seminare a Dio nel nostro cuore a piene mani il bene e il bello ogni istante. Piccoli semi come la senape, ma che diverranno grandi alberi, lievito nascosto ma che ha la forza di far crescere la pasta della nostra vita e del mondo – come sottolineano le altre due parabole ascoltate.
Lasciate dunque che crescano insieme fino al giorno del raccolto. Questa è la libertà di Dio che si può permettere di essere libero e di lasciarci liberi. E noi cosa ne facciamo di questa libertà?
Come stiamo lottando contro l'erbaccia cattiva? Ancora facendo le crociate contro il male, accusando e puntando il dito, giudicando, o cercando con tutte le sue forze di cambiare noi stessi per migliorare, per essere più forti, santi, luminosi?
Il buon grano può solo tentare di cambiare se stesso.
Dio sa che se il "buon grano" si impegnasse di più e con più gioia a moltiplicare il bene e la giustizia piuttosto che guerreggiare contro il male, il campo del mondo diventerebbe pieno di vita.
A quel momento io dirò ai mietitori: raccogliete prima l'erba cattiva e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece mettetelo nel mio granaio. Dio un giorno, il giorno del raccolto, raccoglierà lui stesso l'erba cattiva, sarà lui stesso a chiedere ragione a molti delle loro scelte, scelte dettate dal nemico. Nulla, assolutamente nulla di ciò che abbiamo vissuto nel bene e nel male andrà perduto.
Chiederà cosa ne abbiamo fatto di questa nostra vita, di ogni seme di bene che ci è stato donato, di ogni opportunità che ci è stata offerta. E non guarderà tanto al male commesso, ma al bene fatto, al buon grano giunto a maturazione, alla pasta lievitata. Perché agli occhi di Dio il bene pesa più del male e una spiga di buon grano conta più di tutta la zizzania della terra. E “allora i giusti splenderanno come sole nel regno del Padre”.

sabato 15 luglio 2017

Quindicesima del Tempo ordinario



Il seme è la Parola di Dio. Essa viene dall’alto, come la pioggia e la neve. Ha efficacia sicura: “non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E’ il messaggio ascoltato nella prima lettura e nel vangelo.
Questa Parola “uscita dalla bocca di Dio” arriva a noi attraverso Gesù, il seminatore. Lui semina la Parola con abbondanza tale da poter essere ritenuto sciocco; perché sprecare tanto seme su terreni che difficilmente porteranno frutto? Ma non si tratta di sciocchezza, bensì di generosità, gratuità, fiducia. E’ la certezza che questa Parola ha in sé stessa forza ed efficacia; è la fiducia che nutre in ciascuno di noi, sapendo che ognuno, prima o poi, può cambiare se stesso e farsi accogliente verso di essa. Questo è il motivo che spinge il seminatore a tanta abbondanza: semina senza risparmio, né calcolo, ovunque. Nessuno dunque può dirsi estraneo al seme della Parola; così come la terra non può dirsi estranea alla pioggia e alla neve.
Se questo è il primo aspetto che le letture oggi vogliono richiamarci - il dono e l’efficacia della Parola di Dio offerta a tutti - si aggiunge tuttavia anche un secondo richiamo. L’invito a saper accogliere la Parola stessa, a non chiudersi ad essa.
Le immagini dei diversi terreni stanno a simboleggiare ciascuno di noi, o meglio, il cuore, cioè il centro della nostra persona, dove prendiamo le nostre decisioni e facciamo le nostre scelte. E’ lì che avviene o l’accoglienza e il rifiuto. Come ricorda il profeta Isaia, citato da Gesù stesso, si possono avere occhi e non vedere, orecchie e non udire “perché il cuore è diventato insensibile”.
Ciò che ci è chiesto è un cuore accogliente e cioè capace di un ascolto attento della Parola così da superare ogni superficialità (l’immagine della strada) e saper interiorizzare la Parola, radicarla in noi; un cuore capace di vincere ogni durezza (immagine dei sassi) sapendo perseverare nella Parola anche nei momenti più difficili; un cuore infine capace di lottare interiormente contro false preoccupazioni e seduzioni (immagine delle spine) così da non lasciare che siano loro a soffocare in noi la Parola, a spegnerne la sua forza di novità. Ecco allora che da questo ascolto che porta alla comprensione della parola nasceranno i frutti attesi; frutti di una vita cristiana vera, di un’esistenza trasformata e rinnovata dalla Parola stessa. Ecco che allora la Parola “non ritornerà … senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”, il renderci conformi all’immagine del Figlio Gesù. A questo deve portarci la Parola di Dio, questo è il suo scopo, il motivo per cui viene seminata nei nostri cuori.
Siamo chiamati quindi ad essere terreni buoni che producono frutti. Ma in cosa consiste l’essere terreni buoni? Esiste un terreno buono? Buono non è il terreno senza limiti, ostacoli, fragilità; piuttosto è il terreno che si lascia fecondare e trasformare dalla potenza stessa del seme che accoglie in sé. Buono non è il terreno senza difetti, ma colui che si lascia ‘convertire’ dalla parola stessa di Gesù, accogliendola così come è capace.
Lasciarci convertire dalla Parola è lasciare che sia essa a plasmare il nostro cuore e renderlo accogliente, pronto all’ascolto, capace di comprendere e vivere quanto seminato.
Ecco allora che la Parola si fa luce e guida in quel cammino dell’esistenza che ci conduce alla “redenzione del nostro corpo… verso la rivelazione dei figli di Dio” come ci ricorda Paolo nella seconda lettura. Le “sofferenze del tempo presente” di cui parla altro non sono che la fatica e la lotta per liberare il  nostro cuore, convertirlo, affinché guidato dalla Parola di Dio sia sempre più proteso “alla gloria futura”, al diventare figli di Dio. Anche noi dunque “gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli”, aspettando che la Parola compia in noi ciò per cui è stata mandata: renderci figli nel Figlio, in una comunione di vita senza fine.
Questo è l’orizzonte verso cui noi e tutto la creazione ci stiamo muovendo, come dentro “le doglie del parto”. E la Parola non fa che orientarci ad esso, trasformarci in esso, sostenerci nella speranza.
Impariamo a ridare spazio, tempo, importanza alla Parola di Dio che continuamente viene seminata in noi. Essa non è altro che Dio stesso, il suo Spirito, che desidera mettere radici in noi. Non è altro che il Figlio fatto uomo, Gesù, verbo-parola fatta carne che oggi, come allora, chiede di essere accolto, ascoltato, amato. E’ Lui che si fa compagno di viaggio, ci parla, ci indica la strada. 
Chi è assiduo all’ascolto della Parola sente crescere la familiarità con la persona di Gesù e si rende conto che a poco a poco questa lo trasforma. L’esperienza della Parola è fondamentale: contribuisce a plasmare la vita della chiesa e di ciascuno di noi. “Nella Parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della chiesa, e per i figli della chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale” (Dei Verbum 21).

sabato 8 luglio 2017

Quattordicesima domenica del Tempo ordinario



Splendida e sconcertante nelle stesso tempo la Parola ascoltata oggi. Si muove su un paradosso più volte richiamato nelle letture.
Per paradosso si intende un’opinione contraria al modo comune di pensare. Proviamo a chiederci: qual è il modo comune di pensare? E’ credere che noi contiamo se siamo grandi, forti, intelligenti, superiori agli altri…, mentre chi è piccolo, umile e mite, semplice, lo consideriamo poco importante, se non uno stupido…
Ebbene oggi la Parola di Dio ci presenta un messaggio totalmente contrario a questo. Ci dice che la vera sapienza e grandezza, il vero valore e la forza autentica stanno proprio nella mitezza, nella semplicità, nell’umiltà.
Per dare verità a questa affermazione, che ci appare appunto un paradosso assurdo, la Parola ci ricorda che Dio ha scelto di stare da questa parte, di essere Lui stesso il Dio della mitezza e della piccolezza. Ecco la sorpresa. Noi uomini che siamo polvere al vento ci facciamo arroganti e viviamo di continuo delirio di onnipotenza, Dio invece che è tutto e tutto sa, Lui è mite e umile di cuore. Semplicemente splendido. Semplicemente sconcertante perché viene a capovolgere i nostri parametri di giudizio e i nostri stili di vita.
In Gesù si manifesta un Dio dal volto mite e umile, già annunciato dai profeti: il grande re atteso, il Messia liberatore, viene, dice il profeta nella prima lettura, ma in modo ben diverso dalle aspettative: “Egli è giusto e vittorioso, umile cavalca un asino… annuncerà la pace alle nazioni”.
Come non vedere in questa immagine Gesù stesso che su un asino entra a Gerusalemme per opporsi a ogni violenza con la mitezza e portare quella pace che non è frutto di conquista ma offerta di perdono e di riconciliazione?
In Gesù ci è manifestato dove abita la vera sapienza e la vera grandezza: in ogni uomo e donna che sanno vivere con mitezza, semplicità e umiltà.
“Ti rendo lodo Padre perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”: è la logica delle beatitudini che proclamano felici e realizzati quanti si aprono con fiducia a Dio e non confidano in sé stessi. E’ la conferma che ci offre Maria esclamando: “Ha guardato all’umiltà della sua serva… grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
Gesù ci svela dove si trova la vera sapienza e grandezza: nel confidare umilmente in Dio e non in sé stessi.
Infatti una sapienza e una grandezza senza umiltà e semplicità, senza abbandono fiducioso a Dio, sfocia in arroganza, prepotenza, presunzione, orgoglio che generano, attorno e nella vita stessa della persona coinvolta, solo lotta, tensione, divisione, cattiveria.
Lo vediamo anche troppe volte nell’esperienza quotidiana: chi si lascia prendere dalla smania di voler essere grande e intelligente senza avere un cuore umile e semplice finisce per fare grandi danni e generare frutti di odio e di cattiveria; questo sia a livello di chi governa gli altri, sia nelle nostre comunità cristiane, come pure nella vita quotidiana delle nostre famiglie e nelle relazioni con le persone.
Il discepolo di Gesù invece, come ci ricorda Paolo, “non è sotto il dominio della carne, ma dello Spirito”. Il dominio della carne è proprio il vivere con arroganza e presunzione, credendosi superiori e migliori degli altri, è il vivere per sé e vedendo solo se stessi.
Chi invece è sotto la guida dello Spirito, quello “Spirito di Dio che abita in voi” ricorda ancora Paolo, allora diventa capace di una sapienza e grandezza diversa, frutto di mitezza, semplicità e umiltà che produci frutti di amore, di serenità, di pace.
E’ verso questo orizzonte che dobbiamo muovere i nostri passi, orientare il nostro cammino. Un cammino che ci porti a un cambio di mentalità e di atteggiamenti. Un cammino non facile, perché forte è in noi la pressione della “carne”, dell’egoismo, dell’orgoglio e della mentalità corrente... Ma Dio non solo ci ha mostrato che Lui sta da questa parte, non solo ci ha rivelato in Gesù come questo stile alla fine premia ed è vincente. Più ancora: in Gesù si è fatto per noi sostegno e guida. “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.”
Ecco Gesù che ci invita: venite, imparate, prendete, troverete.
Sono i verbi del cammino cristiano. Venire a Gesù per imparare il suo stile di vita. Prendere anche noi il suo giogo; parola strana che per gli ebrei simboleggiava la Legge alla quale sottomettersi. Ebbene Gesù invita a prendere certo il giogo ma il suo, cioè la sua legge che è il comando dell’amore, legge dolce e leggera che genera ristoro e pace: “troverete ristoro”.
In Gesù ci è offerta l’unica cosa che conta; non ci impone comandi e leggi; non ci chiede obblighi da rispettare; ci offre solo ristoro, pace, conforto. Questo è il frutto di una vita che si lascia guidare dal Suo Spirito e si apre con fiducia e semplicità al suo amore.
Tutto ciò è quanto andiamo cercando ogni giorno e di cui abbiamo assoluto bisogno.
Solo con Lui possiamo trovare pace, consolazione e forza per il cammino.