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sabato 27 giugno 2015

XIII° domenica del tempo ordinario



Il vangelo di oggi ci pone davanti due episodi intrecciati e simili.

Due donne, una adulta l’altra bambina; entrambe segnate da malattia e morte, alla ricerca di salute, felicità, vita.

Tutte due sono una soggetto l’altra oggetto di un gesto trasgressivo: il toccare. La donna “toccò”; “se anche solo riuscirò a toccare le sue vesti sarò salvata”. La bambina invece viene toccata da Gesù che “prese la mano della bambina e le disse ‘Talità kum’: alzati!”.

Gesto trasgressivo questo toccare; perché? La donna con le perdite di sangue era considerata dalla legge impura e le era assolutamente vietato ogni contatto con alcuno (allo stesso modo dei lebbrosi!); così pure la legge vietava di toccare un cadavere.

Nonostante ciò tutto va verso la trasgressione del toccare, dell’entrare in contatto, dello stabilire una relazione con l’altro.

E questo toccare, è accompagnato, in tutte e due gli episodi, dalla fede: “Non temere soltanto abbi fede”; “Figlia la tua fede ti ha salvata”. Una fede audace e più forte del male e della morte; questa fede in una persona, Gesù, porta al ritrovamento della vita in tutta la sua pienezza, vuoi per la donna malata, vuoi per la bambina morta.

Un ultimo particolare che unisce le due figure femminili: il numero 12. La donna era malata “da dodici anni”; la bambina “aveva dodici anni”. Sappiamo come siano importanti per gli ebrei i numeri e il loro simbolismo. Dodici, come le 12 tribù d’Israele, come i 12 apostoli, sta a indicare tutto il popolo; è simbolo di totalità, di universalità. Quasi a voler sottolineare che quella donna e quella bambina rappresentano tutta l’umanità, tutti noi.

Tutti noi che ancora oggi soffriamo di “perdite di sangue”.

Il sangue, nella Bibbia è sinonimo di vita. Perdere sangue, sta a dire perdere vita. Oggi viviamo tutti in continua perdita di vita, stremati, ansiosi, in mezzo a conflitti e competizioni, mentre la paura regna sovrana. E’ una umanità che “perde vita” in continuazione. Insoddisfatti e scontenti; mai appagati di quello che abbiamo e facciamo. Le nostre famiglie e comunità sono segnate da ferite, da emorragie, da perdita di pace, di serenità, di amore.

Dove trovare felicità, guarigione, vita?

Contro questo essere in “perdita di vita”, contro tutto ciò che contrassegna di paura e di morte il nostro oggi, la Parola ci dice che occorre tornare a “toccare” e a “lasciarsi toccare e prendere per mano” da Gesù, come quella donna, come quella bambina.

Solo un’umanità che ritrova il coraggio di “toccare”, cioè di entrare in relazione personale, vitale con Gesù può ritrovare vita.

Questo è quanto di più trasgressivo possiamo e dobbiamo osare. Entrare in una relazione profonda e vera con Lui, superando ogni paura, “gettandoci davanti a Lui” come quella donna che esce dall’anonimato della folla. Solo così potremo sentirci dire: “Figlia, figlio, và in pace e sii guarito dal tuo male”.

Toccare Gesù e lasciarsi toccare da Lui significa toccare l’amore, ripartire dall’amore.

La donna malata tocca Gesù, tocca l’amore. Un tocco segreto, nascosto, ma deciso. Deciso a toccare l’amore, deciso a ripartire dall’amore. Guarisce.

Gesù tocca la bambina, l’Amore tocca la bambina e la vita riparte, rinasce, risorge.

L’amore, consapevole o meno, funziona comunque, sempre, su tutto. L’amore di Dio che visita l’amore dell’uomo questo guarisce l’umanità e apre le porte alla pace, alla serenità, alla felicità che andiamo cercando.

E’ l’amore che rende felici e che sana il dolore  e le sofferenze. Non c’è crescita interiore senza amore, non c’è crescita in famiglia e nella comunità cristiana, non c’è crescita nelle relazioni, nell’affetto senza amore. La vera follia è vivere senza amore, affrontare gli eventi senza amore, non amare ciò che accade, diventare nemici di tutto e di tutti.

Non c’è invece cosa al mondo più saggia e vantaggiosa per la propria persona che cominciare ad accettare con amore tutto ciò che ci accade; non c’è bene più alto per la propria salute interiore e fisica che iniziare ad amare la realtà, la vita, le persone del nostro presente. Quando ti svegli al mattino, chiediti se non puoi amare un po’ di più, anche solo un po’. Non c’è nulla al mondo più potente della fede nell’amore, della totale fiducia che, amando la realtà, il mondo, tutto può cambiare.

Questo amore, perché sia autentico, deve scaturire da Gesù, dal contatto con lui che ci comunica la vita stessa di Dio. Quel Dio  che “non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”, ma che ha voluto “le creature del mondo portatrici di salvezza”; Dio ti ha fatto sano e buono ci ha detto il libro della Sapienza, “a immagine della propria natura”, e questa natura altro non è che amore. Noi siamo fatti a immagine dell’amore e viviamo solo se amiamo.

Solo nell’amore vissuto seguendo Gesù, con lo stile di Gesù, che “da ricco che era, si è fatto povero per voi perché voi diventaste ricchi per la sua povertà”, noi possiamo ritrovare pace, serenità, vita, pienezza. Un amore quello di Gesù che diventa offerta e dono, “offerta di sangue” per noi; il suo sangue versato è il segno più alto dell’amore vero. Esso viene a rinvigorire il nostro “sangue perso”: la sua vita donata, diventa per noi vita ritrovata.

Energia di vita l’amore, senza la quale si va solo verso la morte.

Lasciamoci prendere per mano da Gesù entriamo nella relazione d’amore con Lui per imparare ad amare per vivere.

“Talità kum”: risuoni anche por noi questo invito bellissimo che Gesù dice a tutti noi: “fanciulla umanità, svegliati! alzati”. E’ l’invito a decidere pian piano, ma con assoluta determinazione, di imparare ad amare tutto ciò che facciamo e viviamo. Se non amiamo blocchiamo tutte le energie, tutte le nostre possibilità di sviluppo e felicità: tutto diventa perdita di vita.

Uomo o donna che tu sia svegliati, invece di soffrire di emorragia puoi essere contagio di gioia e di serenità. Svegliati, alzati. Amare si può. Amare, con Gesù e come Lui, può essere la risposta che andiamo cercando.

domenica 21 giugno 2015

XII domenica del tempo ordinario



Una riflessione di E.Ronchi (da Avvenire).
 
Una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù dorme. Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore con le vene aperte, e Dio sembra dormire.
Nessuna esistenza sfugge all'assurdo e alla sofferenza, e Dio non parla, rimane muto.
È nella notte che nascono le grandi domande: Non ti importa niente di noi? Perché dormi? Destati e vieni in aiuto! I Salmi traboccano di questo grido, riempie la bocca di Giobbe, lo ripetono profeti e apostoli. Poche cose sono bibliche come questo grido a contestare il silenzio di Dio, poche esperienze sono umane come questa paura di morire o di vivere nell'abbandono.
Perché avete così tanta paura? Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l'acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell'ansia che anticipa la luce dell'aurora.
Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell'intelligenza. Non interviene al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell'oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.
L'intera nostra esistenza può essere descritta come una traversata pericolosa, un passare all'altra riva, quella della vita adulta, responsabile, buona. Una traversata è iniziare un matrimonio; una traversata è il futuro che si apre davanti al bambino; una traversata burrascosa è tentare di ricomporre lacerazioni, ritrovare persone, vincere paure, accogliere poveri e stranieri. C'è tanta paura lungo la traversata, paura anche legittima. Ma le barche non sono state costruite per restare ormeggiate al sicuro nei porti.
Vorrei che il Signore gridasse subito all'uragano: Taci; e alle onde: Calmatevi; e alla mia angoscia ripetesse: è finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, invece Dio risponde chiamandomi alla perseveranza, moltiplicandomi le energie; la sua risposta è tanta forza quanta ne serve per il primo colpo di remo. E ad ogni colpo lui la rinnoverà.
Non ti importa che moriamo? La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti: Mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro.
Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono qui. A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime, come mano forte sulla tua, inizio d'approdo sicuro.
(Letture: Giobbe 38,1.8-11; Salmo 106; 2 Corinzi 5,14-17; Marco 4,35-41).

venerdì 19 giugno 2015

19 giugno: s.Romualdo, monaco. Un uomo libero guidato dallo Spirito.



Romualdo non è affatto il monaco «classico», posato, facilmente etichettabile e definibile. Se ne era già accor­to un suo contemporaneo, san Pier Damiani, suo disce­polo e ammiratore, scrivendo la sua vita, un po' seccato dal suo eroe che sfugge decisamente alle regole di con­venienza quali si addicono a una «buona vita» di mona­co o di eremita. Naturalmente non osa dipingerlo come «girovago» instabile, come un uomo che non sa quel che vuole, anche se, ad essere sinceri, Romualdo ha l'a­ria di essere proprio così. Pensate: prima cenobita, poi eremita o addirittura recluso; abate del monastero dove ha fatto la professione, dà le dimissioni dopo un anno di governo; fondatore di conventi e di eremi, eccolo all'im­provviso in viaggio verso terre lontane per unire il suo sangue a quello dell'Agnello... Ma non oltrepassa nem­meno la frontiera delle Alpi che già se ne ritorna verso la sua cara Italia e predica, «simile a un serafino», con una passione tale da non resistere fuggendosene così sin­ghiozzando nella solitudine. Per mesi è in prigione, poi fonda Camaldoli, il Santo Eremo che un giorno la­scerà in lacrime per terminare, solitario in Val di Castro, la sua vita solitaria.
Pier Damiani cerca di farci credere che se «il santo uomo cambia continuamente posto è senz'altro per­ché, appena arriva da qualche parte, subito le folle lo assalgono. E appena vede che il monastero o l'eremo che ha fondato è in grado di essere autosufficiente, se ne va subito». E certo una spiegazione «ragionevo­le», accettabile, ma la verità sembra essere un'altra.
Romualdo è uno di quei rari uomini adatti soltanto all'assoluto; che non si lasceranno mai far prigionieri da nulla, per quanto valido o sacro possa sembrare; uno di quegli esseri che non potranno mai rientrare in nessuna categoria perché posseduti, diretti da quell'«inebriante» Spirito di Dio del quale Gesù stes­so diceva un giorno al vecchio Nicodemo: «Soffia do­ve vuole e tu non sai da dove venga o dove vada» (Gv 3,8). Paolo di Tarso dirà: «Là dove c'è lo spirito c'è la libertà» (2 Cor 3,17). E san Pier Damiani riconosce che proprio lo Spirito della folle Sapienza «presiede» l'anima di Romualdo. (...)
Quando le circostanze disperdono il piccolo gruppo eremitico che si è ormai formato intorno a lui, Romual­do prende il suo mantello e se ne va, malgrado la col­lera dei contadini della zona per i quali egli è l'eremita amico. Si finge pazzo per non essere messo a morte. Si dirige verso Ravenna dove suo padre, convertitosi di recente, è entrato nel monastero di san Severo; Ro­mualdo vuole raggiungerlo al più presto per fortificar­lo nella sua decisione. Accanto a lui continuerà la sua vita di solitudine nelle insalubri paludi di Classe, poi presso la Chiesa di san Martino della Foresta.
Non mancano le prove né gli assalti dell'Avversario. Già a Cuxa si era aperta la guerra tra lui e Satana; fi­nirà solo con l'entrata nel Regno. Romualdo trova la sua forza e la sua serenità in un indomabile e tenero amore per il Cristo: «Caro Gesù, amato Gesù, perché mi hai abbandonato? Mi hai dunque consegnato nelle mani del Nemico? O Cristo, vieni in mio aiuto!». Ma ancora più crudeli saranno i colpi inferti dai fratelli, da quelli che spesso han chiamato Romualdo a diventare loro maestro e padre. (...)
Questa è la difficile scuola alla quale Romualdo im­para ad essere quell'uomo Ubero, quel «folle in Cristo» tutto preso dal cielo, quell'uomo spirituale dal volto radioso che niente riesce a fermare nel suo cammino verso l'amorosa conoscenza di Dio e la fratellanza uni­ versale, questo «padre teoforo» che impressiona gli uni, seduce gli altri, accogliendoli con gioia nella sua solitudine, profeta diventato interamente fuoco che in­fiamma i cuori di desiderio del cielo.

L.A. Lassus, I nomadi di Dio, pp. 105-111

sabato 13 giugno 2015

XI domenica del tempo ordinario



Immagini semplici e chiare per un messaggio forte e bello.
Dio opera in mezzo a noi, in questa nostra storia. Questo è il Regno di Dio di cui parla Gesù. E proprio con Gesù, il vivente, che Dio è sempre all’opera accanto a noi. E già questo è un messaggio bello che ci colma di fiducia e speranza.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta solo di parole consolatorie, ma di fatto ben poco si vede di questo operare di Dio…
Questa obiezione potrebbe nascere se la nostra fede in Lui vacilla e se vogliamo misurare il suo modo di agire secondo i nostri schemi, le nostre idee.
Le due parabole vogliono aiutarci a comprendere meglio proprio il modo di agire di Dio nella storia. In esse Gesù rappresenta e descrive il “regno di Dio” con l’immagine del seme.
Proviamo a cogliere le proprietà di questo seme.
Iniziamo dalla seconda parabola: essa vuole evidenziare come questa presenza-seme è una realtà piccola, nascosta, minima. “E’ il più piccolo di tutti i semi”. Dio, per realizzare la sua presenza e per agire tra noi, sceglie da sempre la strada del nascondimento, della piccolezza. Non dobbiamo cercarlo altrove…
Gesù è il piccolo, l’umile, il nascosto, il servo… Tuttavia “quando viene seminato cresce e diventa più grande di tutte le piante”.
“Un ramoscello io prenderò – ricorda il profeta nella prima lettura – metterà rami e farà frutti”. E’ la strada scelta da Dio: la debolezza per manifestare la forza; la piccolezza per generare grandezza; l’abbassamento e il servizio per innalzare ed esaltare: “Io sono il Signore che umilio e innalzo”. “Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili”: da sempre questa è la via del regno. Non la potenza, la forza, l’appariscenza, il clamore, bensì il silenzio, il nascondimento, l’abbassamento, la piccolezza del seme. Solo così si afferma il suo regno e cresce in noi e attorno a noi.
Solo su questa via anche noi, chiesa, potremo essere presenza e segno dell’agire di Dio; non su altre strade, che oggi facilmente ci seducono e ingannano. Questo è invito allora al saper perseverare in un servizio umile, a volte nascosto, al vangelo, ai fratelli, alla comunità, consapevoli che attraverso questo stile, che altro non è che lo stile stesso di Gesù, passa la presenza di Dio in mezzo a noi oggi.
La prima parabola invece vuole mettere in evidenza che questo seme, piccolo e nascosto, ha una sua forza interna che lo spinge in ogni caso a portare frutto. Infatti il portare frutto non è tanto dovuto all’impegno esterno, all’affanno del contadino, ma dipende da un’energia interna, presente nel seme stesso.
“Di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Sembra voler dire Gesù: c’è una forza di Dio dentro questo seme, c’è un’energia nascosta che opera, “di notte o di giorno”, sia quando tutto va bene, sia quando le tenebre sembrano prevalere.
Ne derivano allora due importanti indicazioni.
Il Regno di Dio è energia diffusa dentro la storia, in ogni creatura. Non pensarti dunque vuoto e non pensare nessuno vuoto. In tutti, in ogni creatura pulsa l’energia di Dio; e grazie ad essa “produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco di grano piene nella spiga”. E’ una visione carica di speranza, di fiducia, che apre a un respiro positivo nel guardare alla storia, alla vita di ciascuno. Grazie a questa energia nascosta (che noi chiamiamo Spirito) tutto è possibile; ogni frutto buono può maturare ovunque e quando meno te lo aspetti!
Inoltre è invito a pensare che non siamo noi i “salvatori del mondo”… a credere che tutto dipende da noi, dal nostro agire, fare, agitarci… Spesso abbiamo questa tentazione di sentirci un po’ il centro di tutto, tutto ruota attorno a me, a noi, alla nostra comunità… ”se non ci fossimo noi andrebbe tutto a catafascio…”. Gesù dice: tranquillo; è Dio che opera, è in Lui la forza che genera frutti nuovi… Fidati, stai sereno, fai la tua parte ma senza presunzione e arroganza; renditi piuttosto umile e semplice canale dove la sua Presenza, il seme del suo amore, possa passare e arrivare ovunque… Sereni e responsabili; sereni perché è Dio che opera con forza; responsabili perché consapevoli che possiamo essere di aiuto o di ostacolo al suo agire.
Questi richiami allora devono far maturare in noi, nelle comunità, una consapevolezza nuova. Quella che Paolo esprime nella seconda lettura: “sempre pieni di fiducia camminiamo nella fede e sforziamoci di essere a Lui graditi”. 
Questo camminare nella fede ed essere a Lui graditi significa fidarci della sua presenza e azione in noi e nella storia e fare nostro lo stile, la via scelta per operare in mezzo a noi: la piccolezza, il servizio, il nascondimento. E fidandoci lasciare che Lui possa operare attraverso di noi; consapevoli che siamo solo strumenti e viviamo di una energia ricevuta e non nostra. Ad essa debbiamo umilmente sempre attingere se vogliamo  portare frutti di bene. Nostro compito è diffondere il seme. Sapendo che se il seme è quello di Dio e non il nostro, esso è pieno di potenzialità e produce frutto, così come lui vuole.