«L’ultimo giorno di gennaio del 1915, sotto il segno
dell’Acquario, in un anno di una grande guerra, al confine con la Spagna,
all’ombra di monti francesi, io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi
libero per natura, fui tuttavia schiavo della violenza e dell’egoismo, a
immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il quadro dell’inferno,
pieno di uomini come me, i quali amavano Dio eppure lo odiavano, e, nati per
amarlo, vivevano nel timore e nella disperazione di contrastanti appetiti». Così
Thomas Merton all’inizio del suo lavoro forse più noto La montagna dalle
sette balze, del ’48 (portata in Italia da Garzanti, editore di molte sue
opere), ricordando il giorno della sua nascita, a Prades, da Owen,
neozelandese, e da Ruth Jenkins, statunitense, pittori globe-trotter.
Un anniversario
da rimarcare per più di una ragione che ha riempito una vita di soli
cinquantatré anni, ma intensa e originale come la sua spiritualità. Scrittore
che richiama un po’ il visionario William Blake, Merton è stato protagonista di
un coraggioso impegno per la pace (fonte di diatribe con i superiori, poi
valorizzato da Giovanni XXIII e da Paolo VI con i quali ebbe scambi
epistolari), nonché un punto di riferimento per il movimento non-violento per i
diritti civili, analista di una «pace sulla terra» fondata su ragioni
evangeliche e affidata alla testimonianza («una parte essenziale della buona
novella è che le misure nonviolente sono più forti delle armi: con armi
spirituali, la Chiesa primitiva ha conquistato l’intero mondo romano») che
resta in tutta la sua attualità come mostra il suo saggio La pace nell’era
postcristiana (Qiqajon).
Ancor prima però, Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione.
Merton, inoltre, va ricordato come uomo dell’ecumenismo e del dialogo, rispettoso delle differenze e concentrato sull’essenziale. Nel dialogo interreligioso, più esplorativo che funzionale, fu pronto ad aprirsi a induisti, buddisti, ebrei, islamici, a cercare le fonti vitali delle altre religioni («Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo»), e con una spiccata attenzione alle espressioni orientali: si vedano le sue riflessioni raccolte da William H. Shannon (L’esperienza interiore, San Paolo) o la sua raccolta che reinterpreta uno dei Padri del Taoismo (La via semplice di Chuang Tzu, che le edizioni Paoline ripresentano ora in una nuova edizione).
Ancor prima però, Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione.
Merton, inoltre, va ricordato come uomo dell’ecumenismo e del dialogo, rispettoso delle differenze e concentrato sull’essenziale. Nel dialogo interreligioso, più esplorativo che funzionale, fu pronto ad aprirsi a induisti, buddisti, ebrei, islamici, a cercare le fonti vitali delle altre religioni («Se affermo di essere cattolico solamente con il negare tutto ciò che è musulmano, ebreo, protestante, indù, buddista, alla fine troverò che non mi è rimasto molto da affermare per dimostrare che sono cattolico. Certamente non avrò il soffio dello Spirito con cui affermarlo»), e con una spiccata attenzione alle espressioni orientali: si vedano le sue riflessioni raccolte da William H. Shannon (L’esperienza interiore, San Paolo) o la sua raccolta che reinterpreta uno dei Padri del Taoismo (La via semplice di Chuang Tzu, che le edizioni Paoline ripresentano ora in una nuova edizione).
Ancora, il
dialogo con i non credenti, declinato nella capacità di vedere segni di «fede
inconscia» negli atei o di «ateismo inconscio» nei credenti («Il grande
problema è la salvezza di coloro i quali, essendo buoni, pensano di non aver
più bisogno di essere salvati e immaginano che loro compito sia rendere gli
altri buoni come loro»). Una vita contemplativa, la sua, mai isolata dalla
realtà. E una vita consacrata concepita come porta aperta all’amore. Un
itinerario, quello di Merton, che dopo molti profili tradotti ha trovato ora un
suo "racconto italiano", grazie ad Antonio Montanari, Maurizio
Renzini e Mario Zaninelli (dell’Associazione Thomas Merton Italia) autori del
volume Il sapore della libertà (Paoline).
Rimasto orfano
giovanissimo insieme al fratello John Paul (perse la madre nel ’21, poi nel ’31
il padre), Thomas, trascorsa parte dell’infanzia negli Usa e della sua
formazione in Francia e in Inghilterra (ma, diciottenne, visitò anche Roma, «la
città trasformata dalla Croce»), raggiunse New York nel ’34 completando gli
studi alla Columbia University. Approdato al cattolicesimo nel ’38, lasciandosi
indietro anche periodi vissuti da libertino gaudente («la mia conversione fu
aiuto di Dio, come ogni conversione e da parte mia fu studio e ricerca»), tre
anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, entrò nell’abbazia di Nostra
Signora del Gethsemani nel Kentucky tra i cistercensi di stretta osservanza e
nel ’49 fu ordinato sacerdote.
Un "traguardo" dopo un percorso segnato da studi, viaggi, sbandate, incontri, dal continuo interrogarsi sul senso della vita, sino all’attrazione per il chiostro. Un percorso le cui tappe si riflettono in tante pagine mertoniane talora tormentate ma orientate nella direzione della Grazia, sparse fra Nessun uomo è un’isola (del ’53); Il segno di Giona (’52), Semi di distruzione (’66), Diario di un testimone colpevole (’67), tradotti da Garzanti, senza dimenticare Semi di contemplazione (del ’49, ora nel catalogo Lindau) e altri scritti, dove la vita contemplativa non è mai fuga dal mondo, bensì modo per entrare in un dialogo profondo con l’uomo.
Aspettando un editore pronto a presentare la versione integrale dei suoi diari si può magari riaprire Scrivere è pensare, vivere, pregare (Garzanti) curato da fratel Patrick Hart e Jonathan Montaldo, una sintesi il cui risultato è dato da una silloge di "sette stanze", da attraversare seguendo il filo di quel diario che Merton iniziò a scrivere sedicenne e dal quale si staccò solo alla morte. Dalla stanza al n. 35 di Perry Street a Manhattan e dalle camere d’albergo occupate a Miami e Cuba dove visse dopo la conversione nel ’38, sino al bungalow di Bangkok dove un ventilatore lo fulminò il 10 dicembre ’68 (si trovava là per un convegno sul monachesimo e come documenta il Diario Asiatico ora riproposto da Gabrielli Editori vi si era ben preparato), passando per i luoghi a lui familiari nell’abbazia di Gethsemani (l’infermeria, la cripta dei libri rari dove scriveva, il deposito scelto come romitorio), la sequenza di interni irradia i pensieri del monaco «viandante di Regni» nato cent’anni fa. Così lontano e così vicino.
Un "traguardo" dopo un percorso segnato da studi, viaggi, sbandate, incontri, dal continuo interrogarsi sul senso della vita, sino all’attrazione per il chiostro. Un percorso le cui tappe si riflettono in tante pagine mertoniane talora tormentate ma orientate nella direzione della Grazia, sparse fra Nessun uomo è un’isola (del ’53); Il segno di Giona (’52), Semi di distruzione (’66), Diario di un testimone colpevole (’67), tradotti da Garzanti, senza dimenticare Semi di contemplazione (del ’49, ora nel catalogo Lindau) e altri scritti, dove la vita contemplativa non è mai fuga dal mondo, bensì modo per entrare in un dialogo profondo con l’uomo.
Aspettando un editore pronto a presentare la versione integrale dei suoi diari si può magari riaprire Scrivere è pensare, vivere, pregare (Garzanti) curato da fratel Patrick Hart e Jonathan Montaldo, una sintesi il cui risultato è dato da una silloge di "sette stanze", da attraversare seguendo il filo di quel diario che Merton iniziò a scrivere sedicenne e dal quale si staccò solo alla morte. Dalla stanza al n. 35 di Perry Street a Manhattan e dalle camere d’albergo occupate a Miami e Cuba dove visse dopo la conversione nel ’38, sino al bungalow di Bangkok dove un ventilatore lo fulminò il 10 dicembre ’68 (si trovava là per un convegno sul monachesimo e come documenta il Diario Asiatico ora riproposto da Gabrielli Editori vi si era ben preparato), passando per i luoghi a lui familiari nell’abbazia di Gethsemani (l’infermeria, la cripta dei libri rari dove scriveva, il deposito scelto come romitorio), la sequenza di interni irradia i pensieri del monaco «viandante di Regni» nato cent’anni fa. Così lontano e così vicino.
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